In politica si dibatte spesso sul fatto di alzare o abbassare il livello di tassazione. La "regola generale" [1] è che i partiti di destra adottino un approccio liberale e chiedano di abbassare le tasse, mentre quelli di sinistra si attestino su posizioni stataliste e auspichino un maggior prelievo fiscale [2]. In questo articolo vogliamo quindi discutere il ruolo della tassazione e dell'intervento statale sulla crescita economica, in particolare citando due concetti ben noti nella teoria economica: le curve di Laffer e di Armey-Rahn. Parleremo anche di un argomento fantoccio frequentemente citato nel dibattito sulla riduzione delle tasse, ovvero la fantomatica "teoria dello sgocciolamento" (trickle-down economics).
La curva di Laffer mette in relazione il livello di tassazione di uno Stato con le sue entrate fiscali; spesso il grafico che la rappresenta pone il primo sull'asse orizzontale (ascisse) e le seconde sull'asse verticale (ordinate). Consideriamo, per semplicità, le imposte sul reddito: se l'aliquota fosse pari allo 0% del reddito, le entrate sarebbero esattamente pari a zero; se fosse un po' maggiore, tipo al 20%, lo Stato otterrebbe una certa quantità di introiti fiscali (pari, appunto, al 20% dei redditi dichiarati dai cittadini). Cosa accadrebbe invece se l'aliquota raggiungesse il 100%? Le entrate statali precipiterebbero di nuovo a zero, perché nessuno dichiarerebbe alcun reddito. Infatti nessuno sarebbe disposto a lavorare se non ne ricavasse alcun beneficio [3] e, piuttosto, preferirebbe non dichiarare alcun reddito al fisco (cioè lavorare "in nero"). Più in generale, possiamo dire che il disincentivo a lavorare (o, perlomeno, a farlo "in chiaro") dipenda dalla percentuale di prelievo fiscale: il primo è tanto maggiore quanto lo è la seconda. Dunque la curva che descrive la relazione tra tasse ed entrate ha la forma di una U rovesciata: va a zero sui lati, ed ha un massimo da qualche parte in mezzo.
Il concetto da tenere a mente è che le entrate dello Stato sono pari al prodotto tra l'aliquota ed il reddito imponibile dichiarato. All'aumentare del livello di tassazione, si riduce l'incentivo a lavorare e produrre o, perlomeno, a dichiarare di farlo; si crea anche l'incentivo a trasferirsi in altri Stati dal fisco meno esoso. E' semplicemente ingenuo pensare che un aumento delle tasse aumenti sempre e proporzionalmente le entrate. Inoltre esiste un livello di tassazione oltre il quale le entrate dello Stato si riducono, poiché il calo nel reddito dichiarato non viene compensato dall'aumento dell'aliquota. L'intuizione dell'economista Arthur Laffer fu proprio questa, cioè che tra i due punti estremi (le aliquote dello 0% e del 100%) ci debba essere un punto che massimizzi le entrate statali, e che tentare di aumentare le aliquote oltre di esso sia controproducente per lo Stato.
Chiariamo subito che il concetto espresso dalla curva di Laffer è una verità incontrovertibile. Nessun economista [4] mette in dubbio la spiegazione di cui sopra, semplicemente perché riflette la logica economica ("gli incentivi contano" [5]). Il dibattito politico/economico riguarda invece l'applicazione pratica di tale concetto, cioè la stima della posizione del picco e della pendenza della curva per un dato paese, oltre che della sua attuale posizione lungo di essa. Ridurre le tasse - a parità di tutto il resto - aumenterà la crescita economica, ma di quanto? E cosa succederà alle entrate statali, aumenteranno o diminuiranno?
Una cattiva prassi da parte dei politici (tipicamente di destra) che propongono tagli delle tasse consiste nel sostenere che "si ripaghino da soli", ovvero nel supporre che la crescita economica aumenterà così tanto da produrre più entrate per lo Stato nonostante le aliquote minori. Questo scenario non è impossibile, ovviamente, ma non può essere dato per scontato: si verificherebbe solo se il paese si trovasse inizialmente a destra del picco. Sarebbe quindi molto più prudente tagliare le tasse e le spese, in modo da tenere il bilancio in pareggio (e casomai avere un surplus fiscale da poter usare per ridurre il debito pubblico accumulato in passato).
Dal punto di vista degli economisti di libero mercato, tuttavia, la curva di Laffer pone l'accento sul problema sbagliato: l'obiettivo da perseguire non dovrebbe essere quello di massimizzare le entrate statali. Anche limitandosi ad adottare un approccio utilitaristico [6], si dovrebbe piuttosto mirare a massimizzare la crescita economica.
In questo contesto, può essere utile considerare la curva di Armey-Rahn. Essa mette in relazione le dimensioni dello Stato, cioè quanto spende e tassa [7], con il tasso di crescita economica. Anche in questo caso si ha una curva a forma di U rovesciata. Da una parte, si ipotizza che solo lo Stato possa offrire certi servizi indispensabili [8-9]: infrastrutture di base, sistema legislativo, sistema giudiziario, forze dell'ordine e forze di difesa. In tale ipotesi, esiste un livello (dimensione) ottimale di intervento statale che, fornendo un ambiente adatto all'attività economica, massimizzi lo sviluppo materiale della società. Riducendolo, si otterrebbe invece una minore crescita economica.
D'altra parte, sappiamo che lo Stato manchi degli incentivi economici tipici del settore privato. Data la sua inefficienza, un perimetro statale più esteso [10] ridurrebbe il tasso di crescita - a maggior ragione considerando che, per finanziarlo, bisognerebbe aumentare il livello di tassazione. Oltre un certo livello, e a parità di tutto il resto, la crescita può diventare addirittura negativa.
In effetti, tornando alla curva di Laffer, il punto massimo corrisponde a una situazione in cui l'economia del paese si stia contraendo per effetto dell'elevata imposizione fiscale. Tant'è che, aumentando ulteriormente la percentuale di tassazione, il calo dell'attività economica sarebbe così forte da ridurre anche le entrate dello Stato. In altre parole, per massimizzare le entrate statali bisognerebbe portare il paese in recessione.
Anche senza arrivare a tali eccessi, dobbiamo comunque chiederci se valga la pena aumentare tanto le tasse: se si ottiene solo un incremento modesto delle entrare, e nel farlo si riduce sensibilmente la crescita del reddito nazionale, probabilmente non conviene.
Chiariamo subito che il concetto espresso dalla curva di Laffer è una verità incontrovertibile. Nessun economista [4] mette in dubbio la spiegazione di cui sopra, semplicemente perché riflette la logica economica ("gli incentivi contano" [5]). Il dibattito politico/economico riguarda invece l'applicazione pratica di tale concetto, cioè la stima della posizione del picco e della pendenza della curva per un dato paese, oltre che della sua attuale posizione lungo di essa. Ridurre le tasse - a parità di tutto il resto - aumenterà la crescita economica, ma di quanto? E cosa succederà alle entrate statali, aumenteranno o diminuiranno?
Una cattiva prassi da parte dei politici (tipicamente di destra) che propongono tagli delle tasse consiste nel sostenere che "si ripaghino da soli", ovvero nel supporre che la crescita economica aumenterà così tanto da produrre più entrate per lo Stato nonostante le aliquote minori. Questo scenario non è impossibile, ovviamente, ma non può essere dato per scontato: si verificherebbe solo se il paese si trovasse inizialmente a destra del picco. Sarebbe quindi molto più prudente tagliare le tasse e le spese, in modo da tenere il bilancio in pareggio (e casomai avere un surplus fiscale da poter usare per ridurre il debito pubblico accumulato in passato).
Dal punto di vista degli economisti di libero mercato, tuttavia, la curva di Laffer pone l'accento sul problema sbagliato: l'obiettivo da perseguire non dovrebbe essere quello di massimizzare le entrate statali. Anche limitandosi ad adottare un approccio utilitaristico [6], si dovrebbe piuttosto mirare a massimizzare la crescita economica.
In questo contesto, può essere utile considerare la curva di Armey-Rahn. Essa mette in relazione le dimensioni dello Stato, cioè quanto spende e tassa [7], con il tasso di crescita economica. Anche in questo caso si ha una curva a forma di U rovesciata. Da una parte, si ipotizza che solo lo Stato possa offrire certi servizi indispensabili [8-9]: infrastrutture di base, sistema legislativo, sistema giudiziario, forze dell'ordine e forze di difesa. In tale ipotesi, esiste un livello (dimensione) ottimale di intervento statale che, fornendo un ambiente adatto all'attività economica, massimizzi lo sviluppo materiale della società. Riducendolo, si otterrebbe invece una minore crescita economica.
D'altra parte, sappiamo che lo Stato manchi degli incentivi economici tipici del settore privato. Data la sua inefficienza, un perimetro statale più esteso [10] ridurrebbe il tasso di crescita - a maggior ragione considerando che, per finanziarlo, bisognerebbe aumentare il livello di tassazione. Oltre un certo livello, e a parità di tutto il resto, la crescita può diventare addirittura negativa.
In effetti, tornando alla curva di Laffer, il punto massimo corrisponde a una situazione in cui l'economia del paese si stia contraendo per effetto dell'elevata imposizione fiscale. Tant'è che, aumentando ulteriormente la percentuale di tassazione, il calo dell'attività economica sarebbe così forte da ridurre anche le entrate dello Stato. In altre parole, per massimizzare le entrate statali bisognerebbe portare il paese in recessione.
Anche senza arrivare a tali eccessi, dobbiamo comunque chiederci se valga la pena aumentare tanto le tasse: se si ottiene solo un incremento modesto delle entrare, e nel farlo si riduce sensibilmente la crescita del reddito nazionale, probabilmente non conviene.
Weierstrass
[1] Quella riportata è una semplificazione, ovviamente, poiché esistono molteplici eccezioni. E' però un modo utile per inquadrare una contrapposizione politica comune a molti paesi.
[2] L'altra faccia della medaglia riguarda il livello della spesa pubblica. Un liberale, se coerente, chiederà di abbassare sia le tasse che le spese del Governo; lo statalista, al contrario, sarà tipicamente favorevole ad aumentare entrambe le cose. Tuttavia, tra le posizioni stataliste (cioè che auspicano un ruolo maggiore dello Stato nella gestione dell'economia) va annoverato anche chi desidera un aumento dell'indebitamento pubblico (p.e. un taglio delle tasse a parità di spesa pubblica, oppure un aumento delle spese a parità di tassazione). In politica, è molto più frequente trovare persone - di destra o di sinistra - appartenenti a quest'ultima categoria.
[3] Si potrebbe ribattere che, qualora lo Stato fornisse dei benefici (es. cibo, alloggio, vestiti, cure mediche) ai lavoratori, quest'ultimi magari lavorerebbero anche in presenza di un'aliquota del 100%. Tale obiezione, però, sta descrivendo un'aliquota effettiva minore del 100%: se lo Stato prende inizialmente 100, ma poi restituisce 40 (in denaro, o in beni/servizi equivalenti a quella cifra), allora ha effettivamente prelevato solo 60. Infatti una maggiore efficienza/utilità dei servizi statali finanziati dalla tassazione rende quest'ultima più "tollerabile".
[4] Economisti di destra e di sinistra dissentono tra loro quando vogliono stimare (per esempio) l'aliquota che massimizzi le entrate statali, ma concordano sul fatto che esista quel tipo di curva. Persino Paul Krugman (noto economista ed opinionista del New York Times) ha ammesso che ogni "card-carrying economist" ne sostenga l'esistenza. Per fare un esempio in ambito italiano, Carlo Cottarelli ha scritto nel suo ultimo libro ("Pachidermi e pappagalli. Tutte le bufale sull'economia a cui continuiamo a credere", 2019) che il presupposto della teoria di Laffer sia "semplice e corretto", e che l'esistenza della curva di Laffer sia "indiscutibile".
[5] E' una delle basi di economia. Lo sanno bene quegli economisti che propongono di tassare maggiormente certi beni (es. combustibili fossili, sigarette, alcolici) o servizi (es. transazioni finanziarie) al fine di ridurne l'utilizzo/produzione/consumo. Le imposte sul reddito hanno un effetto analogo, soprattutto perché - in un sistema fiscale progressivo - le aliquote marginali sono sensibilmente maggiori di quelle base. Non conviene lavorare (o impegnarsi) dopo aver già raggiunto una certa soglia di reddito: a quel punto, infatti, le persone preferiscono avere più tempo libero rispetto al (piccolo) guadagno addizionale ottenibile al netto delle tasse.
[6] In contrasto con, per esempio, un approccio etico che equipari la tassazione ad una violazione (estorsione, per essere precisi) dei diritti di proprietà dei cittadini. Tale approccio mirerebbe dunque a ridurre la tassazione al minimo indispensabile (che, peraltro, potrebbe anche essere zero).
[7] A fini pratici, questa spiegazione assume un bilancio pubblico in pareggio: entrate = uscite. Nella realtà, però, parecchi Stati hanno bilanci in deficit, cioè con spese superiori agli introiti fiscali. Allora, considerando che i debiti di oggi si traducono in maggiori tasse domani, probabilmente il miglior parametro per valutare le dimensioni del Governo è il livello delle sue spese.
[8] Questa ipotesi, in realtà, è tutt'altro che scontata. L'esistenza - presente e passata - di città private dimostra che alcuni o tutti quei servizi possano essere forniti privatamente (laddove non siano già stati monopolizzati da uno Stato).
[9] Oltre a quelli elencati, se ne potrebbero aggiungere altri - per esempio, un'istruzione di base. Quale sia il perimetro opportuno dell'intervento statale è, del resto, materia di dibattito.
[10] Il caso limite è quello in cui lo Stato controlli direttamente tutta l'attività economica, in maniera simile a quanto avveniva nei paesi comunisti. Come ci si aspetta dalla logica economica, i risultati sono stati pessimi rispetto alle economie di libero mercato.
[5] E' una delle basi di economia. Lo sanno bene quegli economisti che propongono di tassare maggiormente certi beni (es. combustibili fossili, sigarette, alcolici) o servizi (es. transazioni finanziarie) al fine di ridurne l'utilizzo/produzione/consumo. Le imposte sul reddito hanno un effetto analogo, soprattutto perché - in un sistema fiscale progressivo - le aliquote marginali sono sensibilmente maggiori di quelle base. Non conviene lavorare (o impegnarsi) dopo aver già raggiunto una certa soglia di reddito: a quel punto, infatti, le persone preferiscono avere più tempo libero rispetto al (piccolo) guadagno addizionale ottenibile al netto delle tasse.
[6] In contrasto con, per esempio, un approccio etico che equipari la tassazione ad una violazione (estorsione, per essere precisi) dei diritti di proprietà dei cittadini. Tale approccio mirerebbe dunque a ridurre la tassazione al minimo indispensabile (che, peraltro, potrebbe anche essere zero).
[7] A fini pratici, questa spiegazione assume un bilancio pubblico in pareggio: entrate = uscite. Nella realtà, però, parecchi Stati hanno bilanci in deficit, cioè con spese superiori agli introiti fiscali. Allora, considerando che i debiti di oggi si traducono in maggiori tasse domani, probabilmente il miglior parametro per valutare le dimensioni del Governo è il livello delle sue spese.
[8] Questa ipotesi, in realtà, è tutt'altro che scontata. L'esistenza - presente e passata - di città private dimostra che alcuni o tutti quei servizi possano essere forniti privatamente (laddove non siano già stati monopolizzati da uno Stato).
[9] Oltre a quelli elencati, se ne potrebbero aggiungere altri - per esempio, un'istruzione di base. Quale sia il perimetro opportuno dell'intervento statale è, del resto, materia di dibattito.
[10] Il caso limite è quello in cui lo Stato controlli direttamente tutta l'attività economica, in maniera simile a quanto avveniva nei paesi comunisti. Come ci si aspetta dalla logica economica, i risultati sono stati pessimi rispetto alle economie di libero mercato.
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