Nell'articolo precedente abbiamo descritto le caratteristiche di tre sistemi: cambio fisso, cambio flessibile e unione monetaria. Si pone quindi la domanda di quale sia il sistema più adatto per un gruppo di Stati indipendenti. Meglio una valuta unica od una diversa per ciascun paese? In quest'ultimo caso, meglio fissare i tassi di cambio o lasciarli liberi di fluttuare? La risposta "ortodossa" sostiene che tutto dipenda dai paesi considerati: più le loro economie sono simili, omogenee, più è ragionevole adottare una moneta unica. In particolare, si ritiene che la moneta unica possa avere successo solo se i paesi coinvolti costituiscono un'area valutaria ottimale (AVO). Le caratteristiche di tale area sono fondamentalmente 4: elevata mobilità dei lavoratori e dei capitali (con prezzi e salari flessibili), un sistema fiscale redistributivo e un andamento sincrono del ciclo economico [1]. Se tali condizioni non si verificano, la moneta unica rischia di danneggiare (tutti o alcuni de)i paesi che la adottano. Le discussioni nascono dalle diverse valutazioni su quali paesi costituiscano una AVO e quali no, e quindi se sia migliore adottare uno degli altri due sistemi. Al contrario della teoria standard, però, vogliamo sostenere che - a parità di tutto il resto - i tre sistemi siano sostanzialmente equivalenti. Ciò non esclude di preferirne uno agli altri, ma non si può sperare di risolvere i problemi interni di un paese [2] semplicemente cambiando il suo sistema di cambio.
Consideriamo dunque lo scenario peggiore possibile: due paesi (uno economicamente "debole" ed uno "forte") con stessa valuta, ma scarsa mobilità dei lavoratori e zero trasferimenti fiscali tra di essi. Cosa succede quando il paese debole perde competitività [3] rispetto a quello forte? Inizialmente, i prodotti del secondo vengono preferiti a quelli del primo. C'è quindi un trasferimento netto di denaro dal paese debole a quello forte, assieme ad un maggiore calo dei prezzi nel primo rispetto a quelli nel secondo, fino a raggiungere un nuovo stato di equilibrio nel commercio tra i due Stati [4]. I salari e i profitti aziendali diminuiscono nel paese debole ed aumentano in quello forte; i tassi d'interesse nominali sono gli stessi in entrambi i paesi [5], ma il peso effettivo dei debiti aumenta nel primo [6] e diminuisce nel secondo.
E' banale constatare che si avrebbero le stesse conseguenze in un sistema di cambi fissi tra i medesimi due paesi, ognuno con la propria valuta. In tale scenario, il peggioramento della bilancia commerciale del paese debole costringe la sua Banca Centrale (BC) a ridurre la quantità di moneta in circolazione e ad alzare i tassi d'interesse [7]. Ciò costringe le aziende del paese debole ad abbassare i prezzi e, di conseguenza, i salari ed i profitti. Esattamente come sopra, quindi.
Meno banale è notare che un sistema di cambi flessibili non sarebbe sostanzialmente diverso. La perdita di competitività ed il peggioramento della bilancia commerciale del paese debole causa la svalutazione della sua moneta, dunque i salari e i profitti diminuiscono in valore se misurati nella valuta del paese forte. Si può obiettare però che, se i cittadini del paese debole comprano solo i beni prodotti in loco, cioè quelli il cui prezzo (teoricamente) non dipende dal tasso di cambio, mantengono intatto il loro potere d'acquisto. Tale affermazione presenta due limiti evidenti. In primo luogo, tutti i paesi importano beni dall'estero; anche i beni prodotti in loco spesso derivano da materie prime o da componenti importate. Magari una parte della popolazione riesce ad evitare un calo nel valore reale dei propri salari, ma la restante parte no. In secondo luogo, la stessa tesi può essere sostenuta nel caso dell'unione monetaria: i salari del paese debole diminuiscono, ma anche i suoi prezzi interni, perciò i cittadini potrebbero limitarsi a comprare prodotti autoctoni. Su questo punto non c'è quindi differenza tra il sistema di cambio flessibile e l'unione monetaria.
Per quanto riguarda i tassi d'interesse, il discorso è un po' più articolato. I prestiti concessi dai risparmiatori del paese forte ai debitori del paese debole sono denominati nella valuta forte (quella che si è apprezzata), quindi i secondi si ritrovano con un debito più pesante da pagare. Più in generale, i risparmiatori (sia del paese debole, sia di quello forte) preferiscono investire nel paese forte, dal momento che verranno poi ripagati in una valuta migliore. Ciò comporta un aumento dei tassi d'interesse nel paese debole, e questo effetto è tanto più accentuato quanto maggiori e più frequenti sono le svalutazioni della moneta debole.
Si possono immaginare tante varianti dello scenario sopra descritto - per esempio, supponendo che perda competitività un solo un settore produttivo anziché tutta l'economia del paese debole - ma, se si considerano attentamente tutti i fattori coinvolti, si giunge sempre alla stessa conclusione: il sistema di cambio adottato non altera l'esito finale.
Casomai, la preferenza per un sistema anziché un altro dipende da considerazioni che rompano la "simmetria" tra i vari scenari. Per esempio, i critici del cambio fisso e dell'unione monetaria citano spesso la rigidità dei salari nominali [8]. Va premesso che sarebbe bene abolire tutti i vincoli statali che rendono rigidi i salari, che tale fenomeno non può durare per lunghi periodi e che - come tutti i problemi di natura "culturale" - può essere superato. Ciò detto, la mobilità aiuta a superare tale problema: o i lavoratori accettano la riduzione di stipendio, o cambiano lavoro, o si trasferiscono dove possono essere remunerati quanto desiderano [9]. Non si tratta quindi di un'obiezione così robusta quanto sembra ai suoi proponenti.
Altre considerazioni sono invece di natura politica. Come spiegato nella prima parte, il cambio fisso è debole nella misura in cui il Governo del paese ancorato non è disposto a seguirne fino in fondo le regole. Se la BC del paese ancorato adotta una politica troppo espansiva (o troppo poco restrittiva), non riuscirà a difendere il tasso di cambio senza causare gravi danni alla propria economia ed infine sarà spinta (da un punto di vista politico) ad uscire dal cambio fisso [10]. Spesso è andata proprio così, ma può anche succedere il contrario: se il paese di riferimento adotta una politica troppo espansiva, quelli ancorati devono scegliere se "importare inflazione" o abbandonare il cambio fisso, lasciando apprezzare le loro valute.
D'altra parte, introdurre un cambio flessibile pone la questione di quale politica monetaria adottare. Se lo scopo del Governo è quello di inflazionare o di attuare "svalutazioni competitive", va da sé (come già spiegato) che sia meglio "legargli le mani" tramite un cambio fisso o un'unione monetaria. Se invece vuole astenersi da abusi monetari, può essere una soluzione ragionevole.
Perciò, nella terza ed ultima parte di questa trattazione, sfrutteremo i concetti esposti finora per discutere dell'Italia e dell'euro.
CONTINUA
Weierstrass
[1] In pratica: sia i lavoratori sia i risparmi devono potersi trasferire dove vengono maggiormente remunerati; i prezzi e i salari devono essere liberi di aggiustarsi in base alla domanda e all'offerta; i paesi (o le regioni economiche) in difficoltà devono essere aiutate tramite trasferimenti di denaro dagli altri paesi (o regioni); tutti i paesi devono seguire gli stessi periodi di crescita/crisi economica.
[2] Ogni riferimento al dibattito italiano sull'euro è, ovviamente, voluto.
[3] Con poche variazioni, le conclusioni ottenibili in questo scenario posso essere estese a tutti i possibili casi (shock negativi / ciclo economico avverso / etc).
[4] Dove smette di essere conveniente comprare i prodotti del paese forte rispetto a quelli del paese debole.
[5] Ovviamente a parità di rischio, come spiegato nell'articolo precedente.
[6] Chi aveva contratto un debito di 100'000 € con uno stipendio di 1'500 €/mese si trova ora a ripagare lo stesso debito, ma con uno stipendio mensile inferiore. Idem per le aziende, che hanno visto ridurre i propri profitti, ma non i debiti contratti precedentemente.
[7] Si noti che, una volta raggiunto un nuovo equilibrio di prezzi e salari tale che la bilancia commerciale torni in pareggio, i tassi d'interesse possono nuovamente scendere.
[8] Cioè l'idea che i lavoratori siano contrari a riduzioni di stipendio in valore assoluto, ma non in valore reale. Quindi protesterebbero per una riduzione di stipendio da 1'000 € a 900 €, ma non per un aumento generale dei prezzi del 10%.
[9] Il trasferimento di lavoratori dalle regioni meridionali italiane a quelle settentrionali, o dall'Italia al Nord- e Sud-America, oppure dai paesi del Sud-Europa a Germania, Svizzera, Regno Unito etc dimostra che i lavoratori possono e vogliono muoversi per motivi economici.
[10] E' accaduto all'Italia e al Regno Unito nel 1992, per esempio. La lira e la sterlina erano ancorate al marco tedesco. Dal 1988, i tassi d'interesse tedeschi stavano aumentando per contenere l'inflazione interna, costringendo quelli italiani e inglesi a fare altrettanto. Non fu fatto abbastanza, perché le riserve di valuta forte della Banca d'Italia e della Bank of England iniziarono a scendere. Di fronte alla scelta tra alzare ulteriormente i tassi ed abbandonare il cambio fisso, fu scelta la seconda opzione.
Consideriamo dunque lo scenario peggiore possibile: due paesi (uno economicamente "debole" ed uno "forte") con stessa valuta, ma scarsa mobilità dei lavoratori e zero trasferimenti fiscali tra di essi. Cosa succede quando il paese debole perde competitività [3] rispetto a quello forte? Inizialmente, i prodotti del secondo vengono preferiti a quelli del primo. C'è quindi un trasferimento netto di denaro dal paese debole a quello forte, assieme ad un maggiore calo dei prezzi nel primo rispetto a quelli nel secondo, fino a raggiungere un nuovo stato di equilibrio nel commercio tra i due Stati [4]. I salari e i profitti aziendali diminuiscono nel paese debole ed aumentano in quello forte; i tassi d'interesse nominali sono gli stessi in entrambi i paesi [5], ma il peso effettivo dei debiti aumenta nel primo [6] e diminuisce nel secondo.
E' banale constatare che si avrebbero le stesse conseguenze in un sistema di cambi fissi tra i medesimi due paesi, ognuno con la propria valuta. In tale scenario, il peggioramento della bilancia commerciale del paese debole costringe la sua Banca Centrale (BC) a ridurre la quantità di moneta in circolazione e ad alzare i tassi d'interesse [7]. Ciò costringe le aziende del paese debole ad abbassare i prezzi e, di conseguenza, i salari ed i profitti. Esattamente come sopra, quindi.
Meno banale è notare che un sistema di cambi flessibili non sarebbe sostanzialmente diverso. La perdita di competitività ed il peggioramento della bilancia commerciale del paese debole causa la svalutazione della sua moneta, dunque i salari e i profitti diminuiscono in valore se misurati nella valuta del paese forte. Si può obiettare però che, se i cittadini del paese debole comprano solo i beni prodotti in loco, cioè quelli il cui prezzo (teoricamente) non dipende dal tasso di cambio, mantengono intatto il loro potere d'acquisto. Tale affermazione presenta due limiti evidenti. In primo luogo, tutti i paesi importano beni dall'estero; anche i beni prodotti in loco spesso derivano da materie prime o da componenti importate. Magari una parte della popolazione riesce ad evitare un calo nel valore reale dei propri salari, ma la restante parte no. In secondo luogo, la stessa tesi può essere sostenuta nel caso dell'unione monetaria: i salari del paese debole diminuiscono, ma anche i suoi prezzi interni, perciò i cittadini potrebbero limitarsi a comprare prodotti autoctoni. Su questo punto non c'è quindi differenza tra il sistema di cambio flessibile e l'unione monetaria.
Per quanto riguarda i tassi d'interesse, il discorso è un po' più articolato. I prestiti concessi dai risparmiatori del paese forte ai debitori del paese debole sono denominati nella valuta forte (quella che si è apprezzata), quindi i secondi si ritrovano con un debito più pesante da pagare. Più in generale, i risparmiatori (sia del paese debole, sia di quello forte) preferiscono investire nel paese forte, dal momento che verranno poi ripagati in una valuta migliore. Ciò comporta un aumento dei tassi d'interesse nel paese debole, e questo effetto è tanto più accentuato quanto maggiori e più frequenti sono le svalutazioni della moneta debole.
Si possono immaginare tante varianti dello scenario sopra descritto - per esempio, supponendo che perda competitività un solo un settore produttivo anziché tutta l'economia del paese debole - ma, se si considerano attentamente tutti i fattori coinvolti, si giunge sempre alla stessa conclusione: il sistema di cambio adottato non altera l'esito finale.
Casomai, la preferenza per un sistema anziché un altro dipende da considerazioni che rompano la "simmetria" tra i vari scenari. Per esempio, i critici del cambio fisso e dell'unione monetaria citano spesso la rigidità dei salari nominali [8]. Va premesso che sarebbe bene abolire tutti i vincoli statali che rendono rigidi i salari, che tale fenomeno non può durare per lunghi periodi e che - come tutti i problemi di natura "culturale" - può essere superato. Ciò detto, la mobilità aiuta a superare tale problema: o i lavoratori accettano la riduzione di stipendio, o cambiano lavoro, o si trasferiscono dove possono essere remunerati quanto desiderano [9]. Non si tratta quindi di un'obiezione così robusta quanto sembra ai suoi proponenti.
Altre considerazioni sono invece di natura politica. Come spiegato nella prima parte, il cambio fisso è debole nella misura in cui il Governo del paese ancorato non è disposto a seguirne fino in fondo le regole. Se la BC del paese ancorato adotta una politica troppo espansiva (o troppo poco restrittiva), non riuscirà a difendere il tasso di cambio senza causare gravi danni alla propria economia ed infine sarà spinta (da un punto di vista politico) ad uscire dal cambio fisso [10]. Spesso è andata proprio così, ma può anche succedere il contrario: se il paese di riferimento adotta una politica troppo espansiva, quelli ancorati devono scegliere se "importare inflazione" o abbandonare il cambio fisso, lasciando apprezzare le loro valute.
D'altra parte, introdurre un cambio flessibile pone la questione di quale politica monetaria adottare. Se lo scopo del Governo è quello di inflazionare o di attuare "svalutazioni competitive", va da sé (come già spiegato) che sia meglio "legargli le mani" tramite un cambio fisso o un'unione monetaria. Se invece vuole astenersi da abusi monetari, può essere una soluzione ragionevole.
Perciò, nella terza ed ultima parte di questa trattazione, sfrutteremo i concetti esposti finora per discutere dell'Italia e dell'euro.
CONTINUA
Weierstrass
[1] In pratica: sia i lavoratori sia i risparmi devono potersi trasferire dove vengono maggiormente remunerati; i prezzi e i salari devono essere liberi di aggiustarsi in base alla domanda e all'offerta; i paesi (o le regioni economiche) in difficoltà devono essere aiutate tramite trasferimenti di denaro dagli altri paesi (o regioni); tutti i paesi devono seguire gli stessi periodi di crescita/crisi economica.
[2] Ogni riferimento al dibattito italiano sull'euro è, ovviamente, voluto.
[3] Con poche variazioni, le conclusioni ottenibili in questo scenario posso essere estese a tutti i possibili casi (shock negativi / ciclo economico avverso / etc).
[4] Dove smette di essere conveniente comprare i prodotti del paese forte rispetto a quelli del paese debole.
[5] Ovviamente a parità di rischio, come spiegato nell'articolo precedente.
[6] Chi aveva contratto un debito di 100'000 € con uno stipendio di 1'500 €/mese si trova ora a ripagare lo stesso debito, ma con uno stipendio mensile inferiore. Idem per le aziende, che hanno visto ridurre i propri profitti, ma non i debiti contratti precedentemente.
[7] Si noti che, una volta raggiunto un nuovo equilibrio di prezzi e salari tale che la bilancia commerciale torni in pareggio, i tassi d'interesse possono nuovamente scendere.
[8] Cioè l'idea che i lavoratori siano contrari a riduzioni di stipendio in valore assoluto, ma non in valore reale. Quindi protesterebbero per una riduzione di stipendio da 1'000 € a 900 €, ma non per un aumento generale dei prezzi del 10%.
[9] Il trasferimento di lavoratori dalle regioni meridionali italiane a quelle settentrionali, o dall'Italia al Nord- e Sud-America, oppure dai paesi del Sud-Europa a Germania, Svizzera, Regno Unito etc dimostra che i lavoratori possono e vogliono muoversi per motivi economici.
[10] E' accaduto all'Italia e al Regno Unito nel 1992, per esempio. La lira e la sterlina erano ancorate al marco tedesco. Dal 1988, i tassi d'interesse tedeschi stavano aumentando per contenere l'inflazione interna, costringendo quelli italiani e inglesi a fare altrettanto. Non fu fatto abbastanza, perché le riserve di valuta forte della Banca d'Italia e della Bank of England iniziarono a scendere. Di fronte alla scelta tra alzare ulteriormente i tassi ed abbandonare il cambio fisso, fu scelta la seconda opzione.
Buongiorno. Ho ripreso in mano la lettura del blog dall’ articolo dove mi sono fermato, e credo di non aver compreso alcuni punti.
RispondiEliminaNon mi é chiaro se ritiene l’ euro una AVO, e qualora fosse sarebbe davvero opinabile.
Comprendo che il dibattito italiano fosse di infimo livello date le argomentazioni risibili dei sovranisti.
Tuttavia che l’ Euro non fosse una AVO si capiva già da principio.
Nel precedente articolo ha postato un grafico sulla convergenza dei tassi di interesse sui debiti sovrani, ora io mi domando se abbia logica che due paesi diametralmente opposti (Italia/Germania, o se vogliamo Grecia/Germania) possano avere una valutazione del rischio simile!.
Tra l’ altro il punto [1] “le regioni in difficoltà devono essere aiutate con trasferimenti di denaro agli altri paesi”, viene considerato uno dei requisiti per “il corretto funzionamento di una EVO”…mi domando come alla luce dei fatti non ci si sia resi conto che é stato proprio questo punto uno dei più perniciosi per la tenuta dell’ euro.
È già non solo per i trasferimenti di capitali, i quali furono alla base della bolla immobiliare e finanziaria, ma anche per i trasferimenti di merci (la cui posizione debitoria/creditoria) é ben descritta dal saldo Target 2.
L’ esito più plausibile non poteva che essere la socializzazione delle perdite, e contrariamente alle vulgate sovraniste, proprio a danno dei paesi più forti!.
Oggi l’ Europa è come l’ orchestra del Titanic, continua a suonare mentre la barca che continua ad affondare in una spirale inflazionistica posto che fra misure anti recessive e anti inflazionistiche dovrà scegliere le prime.
Se ne vedranno delle belle soprattutto alla luce del fatto che la FED sembra prediligere le seconde, non mi stupisce che il rapporto eur/usd stia calando.
C’è un errore di battitura volevo scrivere “DAGLI altri paesi” nel punto [1]
EliminaBuonasera
EliminaNon ritengo l'euro una AVO. Lo scopo dell'articolo è invece mostrare che cambio fisso, cambio flessibile e unione monetaria sono sistemi equivalenti a prescindere dal fatto che due (o più) economie costituiscano una AVO. Infatti nella discussione vengono considerate due economie - una "debole" ed una "forte" - in ognuno dei 3 sistemi, arrivando alla conclusione che l'esito della storia non cambia. Perciò non credo che l'idea delle AVO sia corretta. In passato (pre-1900) molti Stati adottavano la stessa moneta - l'oro - pur avendo economie molto diverse.
Detto questo, la riduzione degli spread sui debiti sovrani europei rifletteva almeno 2 fattori: (1) il fatto che i singoli Stati non potevano più svalutare/inflazionare la moneta a loro piacimento; (2) l'idea che uno Stato dell'UE non sarebbe stato lasciato fallire, o perlomeno che si sarebbe fatto il possibile per evitarlo. Il secondo punto è stato in effetti un "azzardo morale" a beneficio degli Stati fiscalmente irresponsabili (es. Italia e Grecia).
Concordo che sarebbe meglio evitare trasferimenti di denaro da alcuni Stati ad altri. Ognuno dovrebbe gestire responsabilmente le proprie finanze.