Cerca nel blog

martedì 11 agosto 2020

Miti statalisti: #14 la concorrenza fiscale "sleale"

L'Italia è un paese afflitto da vari problemi di natura economica, i quali richiederebbero (dolorose) azioni correttive. In casi come questo, è elevata la tentazione - soprattutto politica - di accampare scuse, tipicamente scaricando la colpa su altri soggetti al fine di non dover mai correggere i propri errori. Uno degli argomenti creati a tale scopo è quello della concorrenza fiscale "sleale" da parte di altri Stati membri dell'Unione Europea (UE). Infatti alcuni Stati - Cipro, Olanda, Irlanda, Lussemburgo, Belgio, Ungheria e Malta - applicano minori [1] imposte sui redditi delle società rispetto a quelle italiane, incentivando le "nostre" imprese a trasferire lì la propria sede legale. Di conseguenza, il fisco italiano "perde" gli introiti fiscali che avrebbe ottenuto se quelle aziende avessero mantenuto sede in Italia. Per tale motivo, il Governo italiano accusa di slealtà gli Stati sopracitati. La soluzione proposta? Imporre una tassazione uguale (armonizzazione fiscale) per tutta l'Unione. 


Le virgolette dell'introduzione sono d'obbligo, vista la natura paradossale della tesi riportata. Un'azienda appartiene ai suoi proprietari, non allo Stato italiano, il quale non può accampare pretese immaginarie su di essa o sui suoi guadagni. Quindi l'affermazione (per esempio) secondo cui l'Olanda "rubi i nostri soldi" rasenta il ridicolo.
La realtà è che ogni paese - appartenente o no alla UE - decide autonomamente il tipo e la quantità di imposte fiscali, come normale che sia [2]. Non solo: rientrano nell'autonomia (qualcuno direbbe "sovranità") nazionale le scelte riguardanti il peso della burocrazia e la qualità dei servizi pubblici di uno Stato [3], che sono elementi altrettanto importanti per le aziende. Peraltro, non sono solo le aziende a lasciare il Bel Paese, vista la nota "fuga" di persone (spesso giovani) verso l'estero. Dovremmo accusare gli altri Stati di "rubare i nostri lavoratori", allora?

Esistono Stati più efficienti di altri e, in particolare, dell'Italia: offrono gli stessi servizi con minore spesa pubblica, o servizi migliori a parità di spesa [4]. Di conseguenza, possono permettersi tasse più basse delle nostre. L'unica soluzione razionale è imitare le loro politiche virtuose - taglio degli sprechi, pareggio di bilancio, semplificazione delle procedure burocratiche. La concorrenza fiscale incentiva tutti gli Stati a fare meglio per i propri cittadini, quindi è un fattore positivo per quest'ultimi [5]. Viceversa, la cosiddetta "armonizzazione" incentiverebbe i paesi efficienti a diventare spendaccioni ed estenderebbe l'inferno fiscale italiano agli altri Stati membri [6]. 

Nell'ambito di questo dibattito, è interessante considerare le tesi sostenute in un recente articolo dell'Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani, dal titolo "L’Unione Europea e le eccessive differenze nella tassazione dei profitti tra paesi". Sono essenzialmente due: 
  1. Che l'armonizzazione consentirebbe di allocare gli investimenti sulla base di motivazioni economiche, anziché di "distorsioni" generate dai diversi regimi fiscali. 
  2. Che i paesi più piccoli abbiano un vantaggio nell’abbassare la propria tassazione (cit.: "in quanto la piccola perdita di gettito sui profitti delle società già operanti nel paese dovuta al calo della tassazione è più che compensata dall’afflusso di investimenti dal resto del mercato comune"). 
La prima tesi fallisce nel riconoscere che il carico fiscale e la qualità dei servizi da esso finanziato siano motivazioni economiche: tali fattori incidono sulla capacità di produrre e vendere beni/servizi da parte delle aziende. Ogni Stato fornisce servizi (sicurezza, giustizia, infrastrutture, etc [7]) funzionali alle aziende che vogliono produrre sul suo territorio, dunque scegliere quello più efficiente non è diverso dal selezionare i fornitori o i distributori migliori per esse. Si tratta di una scelta di efficienza economica. In sintesi, la concorrenza fiscale consente di allocare gli investimenti laddove sono più produttivi. 
La seconda tesi è stata formulata per rispondere all'obiezione che anche l'Italia potrebbe iniziare ad applicare imposte molto basse [8]. Proviamo però a considerare la stessa affermazione sostituendo "aziende" a "paesi". Un'azienda piccola può attirare clienti abbassando il prezzo dei suoi prodotti, poiché la perdita di guadagno sui vecchi clienti può essere più che compensata dall'afflusso di nuovi clienti...giusto? No. E' evidente quale sia il problema: poiché ciascun prodotto ha un costo di produzione, il prezzo di vendita non può essere abbassato al di sotto di esso - altrimenti l'azienda subisce una perdita monetaria per ciascuno dei suoi clienti (quindi perdite totali tanto maggiori quanto più numerosi sono i nuovi clienti). In effetti, la concorrenza di mercato spinge ciascuna azienda a tenere ragionevolmente bassi i prezzi dei suoi prodotti [9]. Se li tiene troppo alti, perde clienti a favore dei concorrenti; se li tiene troppo bassi, subisce perdite. 
Adesso possiamo rileggere il punto 2 e commentarlo adeguatamente. Il motivo per cui uno Stato può applicare un'aliquota effettiva più bassa di quella italiana è che i servizi da lui erogati a fronte di tale imposta costano meno del ricavato di quest'ultima. Per lo Stato irlandese, l'arrivo di 100 nuove sedi legali straniere comporta meno spese di quello che guadagna da esse tramite la sua bassa tassazione; ecco perché può permettersi di tenerla bassa. Ciò significa anche che la tassazione italiana è eccessiva rispetto ai servizi che, in teoria, dovrebbe finanziare. Quindi la concorrenza tra Stati svolge lo stesso ruolo della concorrenza tra imprese: abbassare il costo dei servizi a un livello più ragionevole [10]. Si tratta di un risultato auspicabile dal punto di vista economico; non ha senso volerlo impedire. 


In conclusione, non c'è nulla di sleale o inopportuno nella concorrenza fiscale tra gli attuali Stati membri. l'armonizzazione fiscale servirebbe unicamente ad espandere gli introiti (e i probabili sperperi) degli Stati più inefficienti.  


Weierstrass

PS: l'articolo dell'Osservatorio sostiene anche che i paesi piccoli non abbiano necessità di una spesa pubblica efficiente, potendo invece contare sugli introiti derivanti dalla concorrenza fiscale. Tuttavia, la realtà indica il contrario: si tratta di paesi tipicamente più efficienti di quelli tassaioli. Si veda, per esempio, la tabella "Wastefulness of government spending" del Global Competitiveness Report. Questo perché i paesi piccoli, a causa delle loro dimensioni ridotte, sono maggiormente esposti al rischio di veder emigrare aziende e lavoratori verso paesi vicini che offrano condizioni migliori. L'efficienza nello spendere/tassare è quindi una conseguenza della maggiore concorrenza a cui sono sottoposti rispetto ai grandi Stati. 



[1] In realtà, una parte importante della questione riguarda la definizione delle basi imponibili tramite appositi accordi tra Stati e imprese (tax ruling, di cui peraltro fa uso pure lo Stato italiano). Magari l'aliquota ufficiale di un altro Stato può risultare maggiore rispetto a quella italiana, ma - anche tramite deduzioni/detrazioni - viene applicata su una parte più piccola del reddito d'impresa, comportando quindi un minore carico fiscale. Per semplificare, nel corso di questo articolo si parlerà genericamente di "minori imposte".

[2] Peraltro, fa sorridere che alcuni cosiddetti "sovranisti" siano contrari a tale principio, perlomeno quando si tratta di applicarlo ad altri Stati. Evidentemente c'è qualche problema di coerenza. 


[3] In effetti, la scelta dell'Olanda è motivata anche dalle caratteristiche (per esempio, la semplicità) del suo diritto societario e dall'efficienza della sua Pubblica Amministrazione. Qualità ammesse anche dai suoi critici.

[4] Qualcuno obietterà che lo Stato italiano spenda tanto (anche) a causa del suo debito pubblico elevato. Ma tale obiezione conferma l'inefficienza italiana: per decenni è stato accumulato debito pubblico improduttivo, che ora pesa sulle spalle dei cittadini. Non è stata colpa degli altri Stati, ma dei nostri Governi.

[5] Non lo è per i politici al Governo, che spesso comprano consenso elettorale finanziando spese inutili. 


[6] Se si toglie (o riduce) il rischio che le aziende possano spostarsi verso paesi vicini in cerca di un regime fiscale più favorevole, si crea automaticamente l'incentivo politico a tassarle maggiormente. Così come la concorrenza fiscale tende a ridurre le aliquote, la sua mancanza tende ad aumentarle. Oltretutto, sperare di uniformare le imposte di tutti gli Stati all'attuale livello più basso sarebbe una pia illusione: richiederebbe (per esempio) un taglio draconiano della spesa pubblica italiana, cosa politicamente infattibile. 

[7] Sarebbe più corretto scrivere che li "impone", dal momento che si tratta di monopoli imposti su un certo territorio. 

[8] Ovvero: se il Governo italiano si lamenta delle basse aliquote applicate in Irlanda, che attirano laggiù le sedi delle imprese italiane, perché non le applica anche lui? La tesi dell'Osservatorio è che riscuoterebbe meno introiti fiscali pur avendo un maggior numero di imprese sul suo territorio. 

[9] Tenuto conto di tutti i fattori in gioco, ovviamente, compresa la necessità di remunerare gli investimenti fatti. 

[10] Si può supporre che il costo di ospitare la sede legale di un'azienda addizionale, ammesso che esista, sia trascurabile e possa essere "integrato" nelle altre imposte che gravano sulle imprese e sui loro dipendenti. Ovvero: eliminare le imposte sul reddito di impresa potrebbe essere la conclusione più ragionevole. 

Nessun commento:

Posta un commento