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mercoledì 18 agosto 2021

Il mito della concorrenza perfetta

Una delle critiche rivolte ai sostenitori del libero mercato è che quest'ultimo, per svolgere adeguatamente le sue funzioni, dovrebbe trovarsi in regime di concorrenza perfetta. Se non è così, bisogna (secondo alcuni) che lo Stato corregga le presunte storture del mercato, per esempio tramite politiche antimonopolistiche, oppure (secondo altri) cambiare sistema economico, adottandone uno più statalista. 


Iniziamo col dire brevemente in cosa consista la concorrenza perfetta: una situazione ideale - formulata dalla scuola neoclassica di economia - in cui tante aziende producono lo stesso identico bene, in cui (eventualmente) altre aziende possono iniziare a produrlo senza ostacoli, e in cui compratori e venditori conoscono tutte le informazioni disponibili sul bene in questione. Chiaramente queste condizioni non si verificano, o non lo fanno del tutto, per la maggior parte dei beni in vendita, e da ciò origina la critica riportata nell'incipit.

L'errore di tale ragionamento, però, sta nella premessa: non è vero che, per funzionare, il libero mercato debba essere in concorrenza perfetta. Tutti i concetti alla base del libero mercato restano validi anche con una concorrenza imperfetta: uno scambio volontario è vantaggioso per entrambe le parti coinvolte; per fare il proprio interesse, l'imprenditore deve fare anche quello dei suoi clienti; le persone agiscono in base agli incentivi che ricevono; etc. Anche quando non si verificano le condizioni ideali sopra dette, il libero mercato rimane comunque un sistema migliore rispetto alle alternative stataliste (economia pianificata, proprietà collettiva dei mezzi di produzione, etc). 

Tuttavia, pur ammettendo che sia il sistema migliore, alcuni sostengono che il libero mercato debba essere corretto dallo Stato al fine di renderlo più simile alle condizioni della concorrenza perfetta. In altre parole, si sostiene che l'economia di mercato possa e debba essere resa più efficiente dall'intervento statale. Confrontiamo allora il normale funzionamento del mercato con il modello neoclassico a cui i critici fanno riferimento. 

Nel libero mercato, ciascun imprenditore cerca di capire quali siano i bisogni dei consumatori ed il modo più efficiente per soddisfarli. Inizialmente non conosce queste cose, le deve scoprire per tentativi. La concorrenza consiste nell'accontentare i clienti più di quanto facciano gli altri imprenditori, offrendo una migliore combinazione di qualità e prezzo [1], e nel promuovere i propri servizi. Lo sviluppo di nuovi prodotti e processi produttivi serve a sottrarre fette di mercato ai concorrenti (potenziali [2] o già esistenti). Il profitto conseguito dall'imprenditore dipende dalla sua efficienza nel soddisfare i bisogni dei clienti: quanto maggiore è la prima, tanto lo è la seconda.
Ovviamente colui che per primo individua una nuova soluzione a un bisogno economico si avvantaggia rispetto agli altri imprenditori. Egli ottiene un certo potere di mercato: può chiedere un prezzo più elevato - quindi ottenere un profitto maggiore - rispetto a quello che si formerebbe in presenza di altri concorrenti "alla pari" [3]. Il profitto così ottenuto è il premio per aver avuto la giusta intuizione ed aver corso il rischio di metterla in pratica, laddove nessun altro ha voluto o saputo fare altrettanto fino a quel momento. Tuttavia, la possibilità di ottenere profitti elevati spinge altri imprenditori a imitare il successo del primo arrivato, creando le condizioni per una successiva riduzione dei prezzi e dei profitti. 

A corollario di questa sintesi si possono citare 3 concetti fondamentali:  
  1. La ricerca del profitto spinge gli imprenditori a soddisfare i bisogni dei clienti - concetto descritto dalla famosa espressione di Adam Smith, "la mano invisibile" [4] - e a trovare modi migliori per farlo. 
  2. La concorrenza può essere attiva (p.e. migliorando la produzione di beni/servizi al fine di conquistare maggiori fette di mercato) o passiva (p.e. impedendo agli altri imprenditori di alzare i prezzi per paura di perdere clienti). 
  3. Il sistema dei  prezzi, dei profitti e delle perdite trasmette informazioni e aiuta l'allocazione delle risorse produttive, trasferendole verso i settori e i metodi di produzione che meglio soddisfino le esigenze dei consumatori. 

In nessun punto di questa descrizione dell'economia di mercato si è dovuto ipotizzare un qualche criterio di perfezione. Al contrario, i meccanismi di mercato servono proprio perché qualsiasi sistema umano è necessariamente imperfetto: nessun individuo è onnisciente [5] e tutti possono sbagliare, perciò c'è bisogno di un sistema che diffonda le informazioni e che punisca gli errori (premiando, viceversa, le scelte azzeccate).
Come sopra detto, a priori gli imprenditori non possono sapere le preferenze dei loro clienti, quantificare la futura richiesta dei loro prodotti o identificare il miglior metodo produttivo, quindi devono andare avanti per tentativi. Il ruolo dell'imprenditore consiste proprio nel fare questo tipo di scelte sulla base delle proprie esperienze e valutazioni, prendendosene la responsabilità. Profitti e perdite indicano quali tentativi hanno successo e quali no - un tipo di informazione che, altrimenti, non sarebbe accessibile [6]. 

Diagrammi che descrivono il comportamento di un generico settore (lato sinistro) e della singola azienda (lato destro), sia nel breve che lungo periodo (sopra e sotto, rispettivamente), in concorrenza perfetta. Nel breve periodo, l'azienda ottiene un profitto economico; nel lungo periodo, quest'ultimo si azzera grazie all'ingresso di nuove imprese nel settore. Il prezzo del bene diminuisce, la quantità totale prodotta aumenta, la fetta di mercato della singola azienda si riduce. Immagine presa da qui.


Vediamo adesso - più in dettaglio rispetto a quanto fatto prima - le caratteristiche del modello neoclassico della concorrenza perfetta

  • Per ciascun bene, esiste un gran numero di aziende produttrici, nessuna delle quali abbia il potere di influenzarne il prezzo. Quindi il prezzo di un bene viene recepito dalle imprese che lo producono, anziché essere deciso da esse in maniera indipendente. 
  • Tutti i produttori di un bene dispongono della stessa tecnologia produttiva, e i beni così prodotti sono identici per tutti i produttori. 
  • Non ci sono costi per entrare e uscire dal mercato. 
  • Tutti i compratori e i venditori dispongono di un'informazione completa (costo di produzione, prezzo, caratteristiche, etc) su tutti i beni in vendita. 
Da queste ed altre condizioni di partenza deriva che il prezzo di ogni bene - nel lungo periodo - finisca con l'eguagliare il costo medio per produrlo. Tale situazione corrisponde alle definizioni di efficienza allocativa e produttiva: il beneficio arrecato al cliente dall'ultima unità prodotta di un certo bene è esattamente pari al costo di produrla [7], e tale costo è il più basso possibile [8]. 
In questo modello, ogni imprenditore finisce col guadagnare il cosiddetto profitto normale, cioè quello che remunera il costo opportunità ed il rischio associati ad aver investito il proprio capitale in un certo settore di mercato (anziché, per esempio, averlo investito in un altro settore o non averlo investito affatto). In altre parole: si ha un profitto normale quando le entrate dell'azienda sono pari a tutti i costi di produzione, inclusi il costo opportunità ed il premio per il rischio. Viceversa, si ha un profitto economico (o extra-profitto) quando la differenza tra prezzo di vendita e costo medio di produzione non è pari a zero; tale profitto eccede quello (definito come) normale. Nel modello neoclassico ci può essere un extra-profitto iniziale, che poi si riduce a zero quando un gran numero di nuove aziende (attirate dalla presenza dell'extra-profitto stesso) entra nel mercato suddetto. Viceversa, se l'extra-profitto permane anche successivamente, significa che non si è in presenza di una perfetta concorrenza: qualcosa impedisce ad altre aziende di entrare nel mercato e abbassare il prezzo del bene. Il problema di quest'ultimo scenario è che si produce una quantità minore del bene rispetto a quella che sarebbe "ottimale". 

Alcuni settori di mercato hanno caratteristiche simili a quelle delle concorrenza perfetta - come il mercato azionario e quello delle materie prime - ma altri no [9]. Nel mondo reale, l'informazione non è data: va scoperta. Le aziende diversificano i loro prodotti, cercano di ottenere vantaggi tecnologici, e affrontano costi sia per entrare che per uscire dal mercato. Ciò non vieta di usare il modello - per esempio - per ottenere delle stime quantitative che tengano conto di tali limiti; sarebbe invece sbagliato voler "correggere" il mondo reale per renderlo simile ad esso. Ci sono infatti due problemi principali nella tesi che il libero mercato sia meno efficiente rispetto alla concorrenza perfetta e, quindi, debba essere aggiustato dall'intervento statale. 

Il primo è che l'efficienza non è un fine di per sé: è meglio produrre di più anche se in maniera inefficiente, piuttosto che il contrario. In questo senso, è importante notare come il modello neoclassico descriva un sistema statico: non ci sono innovazione, metodi concorrenti per produrre lo stesso tipo di bene, promozione del prodotto, etc. In pratica, l'imprenditore non svolge alcun ruolo a parte quello di mettere a disposizione il denaro per l'investimento iniziale - da cui l'idea che debba essere remunerato solo per quello. La concorrenza è solo passiva, poiché la presenza di altre aziende serve solo a impedire che una di esse possa modificare il prezzo del bene; nel lungo periodo, ogni impresa mantiene - imperturbata - la sua fetta di mercato. Di conseguenza, vi è totale assenza di sviluppo e crescita economica.
In effetti, lo scopo di tale modello non è massimizzare la crescita, ma l'efficienza: dato un certo livello tecnologico, data una certa curva di domanda per il bene X, e così via, si ha massima efficienza quando un gran numero di produttori può entrare in quel determinato settore ed impiegare la tecnologia migliore, fino ad abbassare il prezzo verso il minimo valore possibile. Nulla però viene detto su come ottenere quelle informazioni, né su come migliorare il prodotto o la tecnologia a disposizione; paradossalmente, gli strumenti che il mercato impiega per gestire queste mansioni (profitti [10], pubblicità, vantaggi competitivi, etc) rappresentano "imperfezioni" da eliminare dal punto di vista della concorrenza perfetta. Perciò tentare acriticamente di realizzare quest'ultima azzopperebbe la crescita economica - cioè un risultato, appunto, indesiderabile. 
Il lettore interessato potrà approfondire tali considerazioni - argomentate in maniera senz'altro migliore di quanto fatto qui - dalle riflessioni di F.A. Hayek e J. Schumpeter

Il secondo problema riguarda l'applicazione pratica delle misure volte a rendere "perfetta" la concorrenza. Come si fa a stabilire se un profitto è normale o no? Il profitto normale non è una quantità misurabile: si può solo osservare il profitto per cui N aziende sono attualmente disposte a lavorare in un certo settore. Ceteris paribus, un profitto maggiore attirerà altre aziende, uno minore ridurrà il numero di quelle esistenti; tutto questo, però, non ci dice nulla su quale sia il profitto normale. Questa constatazione non è poi così sorprendente, perché dalla definizione stessa si capisce che il profitto normale non è una quantità oggettiva, bensì soggettiva. La valutazione del costo opportunità e del rischio di investire risorse nella produzione di un certo bene è necessariamente soggettiva, cioè varia da persona a persona in base al diverso modo di valutare le cose che ha ogni essere umano [11]. La figura dell'imprenditore esiste proprio perché individui differenti valutano le stesse cose in maniera diversa; viceversa, se tutti valutassero le cose allo stesso modo, non ci sarebbe bisogno di imprenditori [12]. 
Peraltro, per osservare la presenza di un extra-profitto nel lungo periodo bisognerebbe aspettare (appunto) un certo periodo di tempo successivo all'introduzione di una nuova tecnologia o di un nuovo prodotto. Tale compito si rivela impossibile in presenza di continue innovazioni.  

Dunque le politiche antimonopolistiche (antitrust) devono basarsi su metodi molto più arbitrari di quello che si vorrebbe far credere. Per esempio, il fatto che un'azienda ottenga una grossa fetta di mercato può essere interpretato come una mancanza di concorrenza perfetta. Quanto grossa dev'essere questa fetta? Dipende dalla valutazione dell'Autorità Antitrust. Come può immaginare il lettore smaliziato, la soglia slitta in base alle connessioni politiche dell'impresa sotto esame. A queste ed altre pratiche dell'Antitrust - come la questione delle "barriere d'ingresso", dei "prezzi predatori", etc - dedicheremo un futuro articolo. La conseguenza paradossale di tale approccio è che l'azienda che meglio soddisfa i suoi clienti grazie a prezzi più bassi e/o qualità più elevata è quella col maggior rischio di essere multata, o addirittura (negli USA) scorporata, dalle politiche antimonopolistiche.  Ne consegue che ad alcuni attori di mercato convenga essere meno efficienti di quanto potrebbero essere, in modo da evitare gli sguardi inquisitori e le multe dell'Autorità Antitrust - i cui commissari, peraltro, non vedono l'ora di ottenere visibilità sui giornali proprio grazie a questo genere di operazioni.


CONCLUSIONI

Il libero mercato non richiede il verificarsi di condizioni ideali come quelle che caratterizzano la concorrenza perfetta. Al contrario, i meccanismi di mercato servono proprio a fronteggiare le imperfezioni del mondo reale. Il modello neoclassico della concorrenza perfetta descrive una situazione statica e teorica di massima efficienza, che magari può approssimare il funzionamento di alcuni settori, ma certamente non di altri. I suoi più grossi difetti riguardano la soggettività del valore ed il ruolo imprenditoriale. L'idea che lo Stato debba realizzare le condizioni della concorrenza perfetta è sbagliata non solo dal punto di vista teorico, ma soprattutto dal punto di vista pratico. Per cercare di ridurre fantomatiche inefficienze di mercato, le politiche antitrust finiscono col punire le aziende migliori,  riducendone la capacità di soddisfare i clienti e spingendole a investire risorse per ottenere protezione politica. Quest'ultima osservazione spiega perché tali politiche dannose continuino ad essere praticate [13], col risultato di creare inefficienze ben più consistenti di quelle che a parole si vorrebbero combattere.

Weierstrass 


[1] I consumatori possono avere esigenze molto diverse gli uni dagli altri, perciò esistono combinazioni qualità/prezzo diverse a seconda della tipologia di clienti scelta. 

[2] A meno di restrizioni legali alla concorrenza, nuove aziende possono continuamente affacciarsi sul mercato. Un'impresa deve tener conto anche di questa possibilità: se i suoi servizi peggiorano, o non migliorano quanto potrebbero, si crea un'opportunità per l'ingresso di nuovi concorrenti. 

[3] Però si ha una forma di concorrenza anche in quel caso: se esistono altri beni per soddisfare il medesimo bisogno, i consumatori possono scegliere tra le alternative possibili. Ciò limita il profitto ottenibile in quel settore di mercato. 

[4] Il concetto è tanto semplice quanto - spesso volutamente - frainteso: gli scaffali di un negozio sono pieni di prodotti utili ai clienti perché il negoziante vuole guadagnare dalla loro vendita. L'interesse personale del negoziante (ottenere un profitto) lo porta a fare anche l'interesse dei clienti (soddisfare i loro bisogni), poiché uno scambio volontario può avvenire solo se entrambe le parti lo reputano vantaggioso. Basta entrare in qualsiasi negozio per averne una quotidiana dimostrazione empirica. 

[5] Consideriamo, per esempio, il criterio dell'informazione perfetta. Nel mondo reale, una fetta di consumatori potrebbe non sapere che l'azienda A venda lo stesso bene dell'azienda B ad un prezzo inferiore. Esiste però l'incentivo (sotto forma di profitto) a trasmettere quell'informazione: o l'azienda A pubblicizza meglio il suo prodotto, o qualcuno compra i beni a prezzo minore e li rivende (con un margine di guadagno) a quei consumatori. 

[6] Il problema è che concetti come valore e utilità sono soggettivi, cioè ognuno valuta le cose in maniera diversa dagli altri. Non potendo leggere la mente delle persone, non c'è modo di sapere come quest'ultime reagiranno di fronte a un certo prodotto; l'unico modo per scoprirlo è tramite un approccio "prova e sbaglia". 

[7] L'efficienza allocativa si verifica quando il prezzo di un bene è pari al suo costo marginale (cioè il costo derivante dal produrre un'unità in più di quel bene). In questo contesto, si assume che il prezzo pagato da chi acquista il bene sia pari all'utilità che ne riceve. 

[8] L'efficienza produttiva si verifica quando viene minimizzato il costo medio necessario a produrre ciascuna unità di un certo bene; inoltre il costo medio ed il costo marginale coincidono.

[9] Esistono anche altri modelli, come quelli relativi alla concorrenza monopolistica e all'oligopolio, la cui trattazione esula dallo scopo di questo articolo. 

[10] Chi prima sviluppa nuovi prodotti e idee lo fa per ottenere un vantaggio sui concorrenti, e quindi un profitto. Quest'ultimo è il motore che spinge l'innovazione. Nel modello della concorrenza perfetta, invece, non c'è un "primo arrivato" perché tutte le informazioni sono già date a tutti gli attori economici; in tale sistema, il cosiddetto extra-profitto non riveste alcun ruolo utile e va quindi azzerato. 

[11] C'è chi pensa di risolvere questo problema prendendo come riferimento il profitto attualmente osservabile nel miglior settore alternativo in cui le aziende potrebbero investire. In realtà, questa non è una soluzione per almeno 3 ragioni: (a) come si stabilisce se il profitto nel secondo settore sia normale o no? Si sta solo spostando il problema da un settore all'altro; (b) la migliore alternativa non è la stessa per tutte le aziende; (c) al massimo, questo approccio potrebbe stimare grossolanamente il costo opportunità di investire in un certo settore, ma non direbbe nulla riguardo al rischio di farlo, la cui valutazione è anch'essa soggettiva. 

[12] Tanto varrebbe, in tale ipotesi, raggruppare tutti i risparmi in un'unico fondo d'investimento e allocare le risorse disponibili in base alla valutazione "oggettiva" dei costi opportunità e dei rischi presenti in ogni settore produttivo. Chiaramente, essendo errata l'ipotesi di oggettività, nel mondo reale si otterrebbe un disastro.

[13] In teoria, l'Antitrust si occupa anche di contrastare i monopoli legali, cioè quelli generati dalle leggi dello Stato. Trattandosi di monopoli imposti coercitivamente, quest'ultimi non devono soddisfare i consumatori per mantenere la loro posizione dominante, quindi sarebbe bene eliminarli. In alcuni casi, le politiche antitrust riescono a farlo; in molti altri, purtroppo, sono rese impotenti dalla legge stessa. 

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