In un precedente articolo abbiamo visto che il principale obiettivo delle Banche Centrali (BC) consiste nel far aumentare continuamente il livello medio dei prezzi. Detto altrimenti: una BC ha il compito di creare inflazione fino a raggiungere un tasso prefissato (inflation targeting), tipicamente pari al 2% annuo [1,2]. Qualora questo target venga superato, la BC si impegna ad adottare una politica monetaria restrittiva; qualora invece non venga raggiunto, viene adottata una politica monetaria espansiva [3]. A giustificazione di questa prassi, si sostiene che un calo dei prezzi (deflazione) sia dannoso per l'attività economica; perciò, al fine di evitarlo, è necessario che la BC produca un tasso d'inflazione positivo. Questo articolo si propone di confutare tale ragionamento.
Prima di commentare le tesi inflazioniste, conviene fare qualche considerazione sulla deflazione dei prezzi. Sappiamo che il prezzo di ogni bene viene determinato dalla sua domanda e dalla sua offerta. Affinché il prezzo scenda, bisogna che cali la domanda o aumenti l'offerta del bene in questione. L'offerta può aumentare quando vengono impiegate più risorse per la sua produzione, oppure in seguito a miglioramenti nel processo produttivo. La domanda può calare sia a causa di una minore richiesta di quel determinato bene [4], sia in seguito ad un aumento nella domanda di moneta [5].
In generale, quando più risorse vengono impiegate in un processo produttivo, diminuiscono le risorse impiegate negli altri; inoltre, quando un bene è meno richiesto, aumenta la domanda per le altre merci. Quindi, se si considera l'insieme totale dei beni prodotti da un paese, il livello medio dei prezzi può diminuire solo in presenza di (A) una maggiore efficienza produttiva o (B) un aumento nella domanda di moneta. Il caso (A) descrive la deflazione da offerta ed è un fenomeno positivo per l'economia di un paese: significa una maggiore abbondanza di beni e servizi. Invece il caso (B) rappresenta la deflazione da domanda e, come vedremo tra poco, tale eventualità può essere problematica. Perciò l'obiettivo di questa trattazione è dimostrare l'invalidità delle tesi inflazioniste nei confronti della deflazione da offerta.
Dopo questa breve premessa, consideriamo i principali argomenti a favore dell'inflazione. Uno di essi sostiene che la deflazione riduca i profitti delle imprese, e quindi ne causi o faciliti il fallimento - da cui la necessità di adottare politiche inflazionistiche. Ricordiamo che i profitti sono dati dalla differenza tra il prezzo di vendita delle merci prodotte ed i loro costi di produzione, ovvero:
dove Q rappresenta il numero dei beni venduti, p il prezzo del singolo bene, Ctot i costi totali della produzione e P il profitto ottenuto. A parità di tutto il resto, una diminuzione dei prezzi causa una diminuzione dei profitti; è ciò che succede con la deflazione da domanda [6]. Invece, se i costi di produzione diminuiscono, allora i prezzi possono essere abbassati senza intaccare i profitti; è ciò che succede con la deflazione da offerta. Dunque esistono una deflazione buona (da offerta) ed una deflazione cattiva (da domanda). I profitti aziendali vengono danneggiati dalle deflazione da domanda, ma non dalla deflazione da offerta.
Un altro argomento sostiene che la deflazione avvantaggi i creditori a spese dei debitori, e che l'inflazione avvantaggi i debitori a spese dei creditori. Di solito chi propugna questa affermazione aggiunge che, al fine di ottenere una maggiore domanda aggregata, sia meglio avvantaggiare i debitori - cioè coloro che hanno una (supposta) maggiore propensione marginale al consumo. Tuttavia questo ragionamento contiene due errori.
Anzitutto, avvantaggiare creditori o debitori può cambiare la composizione della domanda aggregata, ma non la sua quantità totale. Infatti, anche supponendo che i creditori preferiscano investire anziché consumare, non c'è motivo di credere che la somma totale di consumi ed investimenti risulti alterata [7]. In secondo luogo, bisogna distinguere i vari tipi di inflazione e di deflazione: da domanda e da offerta. L'inflazione da domanda - generalmente causata dalla creazione di moneta da parte della BC - beneficia i debitori a danno dei creditori; all'opposto, la deflazione da domanda beneficia i creditori a danno dei debitori. I movimenti dal lato dell'offerta, invece, non privilegiano/puniscono alcuna delle due categorie a spese dell'altra.
Per capire meglio questi concetti, supponiamo che un imprenditore abbia chiesto un prestito per iniziare la propria attività produttiva. Se aumenta la quantità di moneta in circolazione, ceteris paribus, può vendere i suoi prodotti ad un prezzo più elevato; i guadagni reali (cioè aggiustati per il tasso d'inflazione) rimangono invariati, ma quelli nominali aumentano. Ciò gli consente di pagare più facilmente le rate del debito precedentemente contratto [8]. Il creditore, al contrario, vede diminuire il valore reale dei suoi risparmi. L'opposto avviene se diminuisce la quantità di moneta in circolazione: l'imprenditore deve diminuire i suoi prezzi, per cui i guadagni nominali diminuiscono e diventa più impegnativo ripagare il debito.
Cosa succede, invece, se la quantità di moneta in circolazione resta immutata in presenza di shock produttivi? Se aumenta la produttività, significa che l'imprenditore può vendere una maggiore quantità di beni ad un prezzo più basso; i suoi guadagni nominali non diminuiscono, quindi l'onere del debito precedentemente contratto non aumenta [9,10]. Viceversa, nel caso opposto (cioè quello in cui un disastro naturale o una guerra danneggino la produzione economica) tale onere non diminuisce: l'imprenditore può alzare i prezzi, ma vende una minore quantità di beni, lasciando invariati i suoi guadagni nominali [11].
Perciò, se si vogliono evitare effetti redistributivi tra creditori e debitori, bisogna evitare sia l'inflazione sia la deflazione da domanda. Non c'è invece alcuna ragione per ostacolare l'inflazione e la deflazione da offerta.
Weierstrass
[2] Tale politica vene spesso descritta come "mantenimento della stabilità dei prezzi". Va da sé che, se il livello medio dei prezzi aumenta, non è stabile per definizione. Tuttavia la maggior parte degli economisti ritiene trascurabile un aumento annuale dei prezzi attorno al 2 percento, per cui li considera "stabili".
[3] Ricordiamo che una politica monetaria espansiva consiste nell'aumentare la base monetaria e nel diminuire i tassi d'interesse; invece, per una politica monetaria restrittiva, vale l'opposto.
[4] Nel senso che le preferenze dei consumatori cambiano nel tempo. Per esempio, un capo d'abbigliamento è più richiesto quando va di moda.
[5] Ricordiamo che si ha un aumento nella domanda di moneta quando le persone (mediamente) decidono di tenere più denaro in forma liquida presso di sé.
[6] Chiaramente, dopo che si verifica un aumento della domanda di moneta, si abbassano anche i costi di produzione. Bisogna però tener conto dello sfasamento (mismatch) temporale tra produzione e vendita: il prezzo dei beni attualmente in vendita può essere abbassato, ma il costo della loro produzione è stato sostenuto prima che i prezzi calassero. Si genera quindi una diminuzione una tantum dei profitti aziendali; quest'ultimi vengono ripristinati solo a partire dai beni successivamente prodotti.
[7] Nel caso della deflazione, il (supposto) maggior reddito reale dei creditori viene impiegato o in consumi o in investimenti. Il rapporto tra consumi ed investimenti totali può certamente variare, ma nulla implica che la loro somma aumenti o diminuisca.
[8] Il debito è una cifra fissata, non aumenta all'aumentare dei prezzi. Un creditore può "difendersi" dall'inflazione solo indicizzando il tasso d'interesse all'andamento dei prezzi.
In generale, quando più risorse vengono impiegate in un processo produttivo, diminuiscono le risorse impiegate negli altri; inoltre, quando un bene è meno richiesto, aumenta la domanda per le altre merci. Quindi, se si considera l'insieme totale dei beni prodotti da un paese, il livello medio dei prezzi può diminuire solo in presenza di (A) una maggiore efficienza produttiva o (B) un aumento nella domanda di moneta. Il caso (A) descrive la deflazione da offerta ed è un fenomeno positivo per l'economia di un paese: significa una maggiore abbondanza di beni e servizi. Invece il caso (B) rappresenta la deflazione da domanda e, come vedremo tra poco, tale eventualità può essere problematica. Perciò l'obiettivo di questa trattazione è dimostrare l'invalidità delle tesi inflazioniste nei confronti della deflazione da offerta.
Dopo questa breve premessa, consideriamo i principali argomenti a favore dell'inflazione. Uno di essi sostiene che la deflazione riduca i profitti delle imprese, e quindi ne causi o faciliti il fallimento - da cui la necessità di adottare politiche inflazionistiche. Ricordiamo che i profitti sono dati dalla differenza tra il prezzo di vendita delle merci prodotte ed i loro costi di produzione, ovvero:
Un altro argomento sostiene che la deflazione avvantaggi i creditori a spese dei debitori, e che l'inflazione avvantaggi i debitori a spese dei creditori. Di solito chi propugna questa affermazione aggiunge che, al fine di ottenere una maggiore domanda aggregata, sia meglio avvantaggiare i debitori - cioè coloro che hanno una (supposta) maggiore propensione marginale al consumo. Tuttavia questo ragionamento contiene due errori.
Anzitutto, avvantaggiare creditori o debitori può cambiare la composizione della domanda aggregata, ma non la sua quantità totale. Infatti, anche supponendo che i creditori preferiscano investire anziché consumare, non c'è motivo di credere che la somma totale di consumi ed investimenti risulti alterata [7]. In secondo luogo, bisogna distinguere i vari tipi di inflazione e di deflazione: da domanda e da offerta. L'inflazione da domanda - generalmente causata dalla creazione di moneta da parte della BC - beneficia i debitori a danno dei creditori; all'opposto, la deflazione da domanda beneficia i creditori a danno dei debitori. I movimenti dal lato dell'offerta, invece, non privilegiano/puniscono alcuna delle due categorie a spese dell'altra.
Figura tratta dall'articolo Aggregate Supply-Driven Deflation and Its Implications for Macroeconomic Stability di David Beckworth. |
Per capire meglio questi concetti, supponiamo che un imprenditore abbia chiesto un prestito per iniziare la propria attività produttiva. Se aumenta la quantità di moneta in circolazione, ceteris paribus, può vendere i suoi prodotti ad un prezzo più elevato; i guadagni reali (cioè aggiustati per il tasso d'inflazione) rimangono invariati, ma quelli nominali aumentano. Ciò gli consente di pagare più facilmente le rate del debito precedentemente contratto [8]. Il creditore, al contrario, vede diminuire il valore reale dei suoi risparmi. L'opposto avviene se diminuisce la quantità di moneta in circolazione: l'imprenditore deve diminuire i suoi prezzi, per cui i guadagni nominali diminuiscono e diventa più impegnativo ripagare il debito.
Cosa succede, invece, se la quantità di moneta in circolazione resta immutata in presenza di shock produttivi? Se aumenta la produttività, significa che l'imprenditore può vendere una maggiore quantità di beni ad un prezzo più basso; i suoi guadagni nominali non diminuiscono, quindi l'onere del debito precedentemente contratto non aumenta [9,10]. Viceversa, nel caso opposto (cioè quello in cui un disastro naturale o una guerra danneggino la produzione economica) tale onere non diminuisce: l'imprenditore può alzare i prezzi, ma vende una minore quantità di beni, lasciando invariati i suoi guadagni nominali [11].
Perciò, se si vogliono evitare effetti redistributivi tra creditori e debitori, bisogna evitare sia l'inflazione sia la deflazione da domanda. Non c'è invece alcuna ragione per ostacolare l'inflazione e la deflazione da offerta.
Weierstrass
[1] Ogni BC si propone di raggiungere tale obiettivo nel
medio termine. Questo perché, nel breve termine, ci possono essere deviazioni
(anche significative) dalla regola.
[2] Tale politica vene spesso descritta come "mantenimento della stabilità dei prezzi". Va da sé che, se il livello medio dei prezzi aumenta, non è stabile per definizione. Tuttavia la maggior parte degli economisti ritiene trascurabile un aumento annuale dei prezzi attorno al 2 percento, per cui li considera "stabili".
[3] Ricordiamo che una politica monetaria espansiva consiste nell'aumentare la base monetaria e nel diminuire i tassi d'interesse; invece, per una politica monetaria restrittiva, vale l'opposto.
[4] Nel senso che le preferenze dei consumatori cambiano nel tempo. Per esempio, un capo d'abbigliamento è più richiesto quando va di moda.
[5] Ricordiamo che si ha un aumento nella domanda di moneta quando le persone (mediamente) decidono di tenere più denaro in forma liquida presso di sé.
[6] Chiaramente, dopo che si verifica un aumento della domanda di moneta, si abbassano anche i costi di produzione. Bisogna però tener conto dello sfasamento (mismatch) temporale tra produzione e vendita: il prezzo dei beni attualmente in vendita può essere abbassato, ma il costo della loro produzione è stato sostenuto prima che i prezzi calassero. Si genera quindi una diminuzione una tantum dei profitti aziendali; quest'ultimi vengono ripristinati solo a partire dai beni successivamente prodotti.
[7] Nel caso della deflazione, il (supposto) maggior reddito reale dei creditori viene impiegato o in consumi o in investimenti. Il rapporto tra consumi ed investimenti totali può certamente variare, ma nulla implica che la loro somma aumenti o diminuisca.
[8] Il debito è una cifra fissata, non aumenta all'aumentare dei prezzi. Un creditore può "difendersi" dall'inflazione solo indicizzando il tasso d'interesse all'andamento dei prezzi.
[9] In
questo esempio, per semplificare, stiamo supponendo che la domanda di beni in
questione aumenti proporzionalmente alla sua offerta. Questo non è
necessariamente vero per un singolo prodotto, ma lo è a livello aggregato: se diminuisce la domanda di un bene,
solitamente aumenta quella di altre merci. Se calasse la domanda totale,
invece, ci troveremmo di fronte a deflazione da domanda - mentre, nell'esempio
sopra citato, abbiamo scelto di osservare solo gli effetti della deflazione
da offerta.
[10] L'onere del debito non aumenta in proporzione ai guadagni
dell'imprenditore. Infatti aumentano sia il valore reale del debito, sia quello
dei guadagni, lasciandone invariato il rapporto. Anche il rapporto tra le
quantità nominali, ovviamente, rimane inalterato.
[11] Certamente i guadagni (e, di conseguenza, i profitti) reali vengono
modificati dagli shock produttivi. Gli shock positivi ne aumentano il potere
d'acquisto, mentre gli shock negativi lo diminuiscono. Ma ciò non favorisce o
penalizza i creditori rispetto ai debitori, né i debitori rispetto ai
creditori. Infatti gli shock positivi beneficiano entrambi, mentre gli shock
negativi li danneggiano allo stesso modo.
articolo molto interessante: mi pare però ci sia un problema legato alla deflazione da offerta: se il debitore non è imprenditore ma lavoratore anche il suo reddito nominale si ridurrà. E anche l' imprenditore non potrebbe/essere costretto dal mercato ad accontentarsi di un profitto leggermente minore nominalmente ma pari in termini reali? Mi sbaglio? Secondariamente, l' aumento del 2% invocato dalle BC non è affatto assimilabile alla stabilità, in 10 anni fa il 20%! Grazie
RispondiEliminaConcordo che il target del 2% non sia una condizione di "stabilità", come hai giustamente notato.
EliminaIn assenza di deflazione da domanda, e a parità di tutto il resto, i redditi nominali dei dipendenti non cambiano. Esempio: se l'azienda acquista un nuovo macchinario, che consente di abbassare i costi di produzione, si possono abbassare anche i prezzi di vendita (deflazione da offerta); ma gli stipendi dei dipendenti rimangono uguali.
Gli stipendi dipendono da domanda e offerta. A meno che aumenti l'offerta di dipendenti rispetto alla sua domanda, o viceversa, non c'è motivo per cui gli stipendi debbano cambiare.
Al contrario, quando si presenta la deflazione da domanda, tutti i prezzi nominali devono calare - stipendi compresi.
Per quanto riguarda i profitti, ci sono varie dinamiche da considerare. A parità di tutto il resto, però, i profitti nominali restano invariati: se costi e ricavi diminuiscono entrambi del 5%, la loro differenza rimane uguale.
Ovviamente, se si presentasse un concorrente disposto a guadagnare un profitto minore, egli potrebbe "costringere" anche gli altri produttori ad abbassare i propri profitti. Ma questo avverrebbe anche in un regime inflazionistico.
In generale, la deflazione da offerta lascia invariate le quantità nominali, aumentando quelle reali: stipendi e profitti aumentano in termini reali. E questo è logico, perché la deflazione da offerta riflette gli aumenti di produttività: la società è davvero più ricca in termini di beni/servizi.
scusa il commento da cacacazzi ma i profitti di un azienda vengono danneggiati anche dalla deflazione da offerta.
RispondiEliminainfatti, se i prezzi diminuiscono perche la aumenta la produttivita e i costi di produzione sono piu bassi, questo vuol dire all'impresa serviranno meno lavoratori, o lo stesso numero di lavoratori ma pagati di meno.
infatti costi di produzione = salari dei lavoratori dell'azienda.
riducendo i salari o creando disoccupazione, dimunisce la propensione al consumo e quindi la domanda aggregata -> le imprese vendono di meno -> nuovi licenziamenti -> ulteriore dimunuzione della domanda.
mi sbaglio?
Figurati, il blog esiste proprio per discutere i contenuti degli articoli.
EliminaI salari costituiscono certamente una parte dei costi di produzione, ma ci sono anche altre componenti: materiali, mantenimento/sostituzione delle attrezzature, etc. Se l'azienda riesce a ridurre queste ultime voci di spesa (per esempio, tramite nuovi processi di produzione) può diminuire il prezzo di vendita senza diminuire i salari.
Più in generale, bisogna vedere come si comporta la domanda del bene prodotto di fronte al calo del suo prezzo. La domanda può aumentare proporzionalmente o più che proporzionalmente, oppure meno che proporzionalmente. I salari di quel settore possono quindi rimanere uguali, aumentare o diminuire.
Nel caso particolare in cui la domanda non sia aumentata proporzionalmente al calo del prezzo, i salari possono diminuire poiché c'è un eccesso di manodopera in quel settore. Ma, contemporaneamente, la domanda rivolta ad altri settore aumenta, aumentando i salari di chi ci lavora. Si crea quindi un forte incentivo a trasferire lavoratori dal primo settore ai secondi. A livello aggregato, quindi, i salari nominali non diminuiscono.
Comunque questo argomento riguarda l'innovazione tecnologica (di cui ho parlato qui http://ride-bene-chi-ha-buon-senso.blogspot.it/2015/02/gli-errori-del-luddismo-1.html http://ride-bene-chi-ha-buon-senso.blogspot.it/2015/02/gli-errori-del-luddismo-2.html ) piuttosto che la deflazione da offerta.
capisco. qual è la frazione dei costi di produzione dovuta ai salari dei lavoratori? immagino dipenda da settore a settore. prendiamo il terziario per esempio, dominante nelle economie occidentali, in cui i costi di produzione sono praticamente assenti, e i costi di un'azienda sono quindi in gran parte dovuti ai salari (se mi sbaglio corregimi pure per favore).
Eliminain questo caso, è giusto dire che la deflazione da offerta, potendo avvenire solo tagliando gli stipendi o licenziando, è cattiva? cattiva sia per chi perde il lavoro, sia per le aziende, che sul medio lungo termine vendono di meno perche cala la domanda aggregata.
ciò che dici nella seconda parte della risposta secondo me ha senso in un mondo ideale in cui prendi i lavoratori e li sposti da un'azienda all'altra. in assenza di frizioni insomma. in questo mondo ideale, se per qualche motivo cala la domanda di un bene, anche se i lavoratori che sono impiegati alla sua produzione perdono il lavoro, non è un problema perchè a parita di domanda aggregata prendi questi lavoratori e li riallochi in aziende che producono beni di altro tipo per cui la domanda cresce.
peccato però che le frizioni ci sono e che i lavoratori non sono pacchi che prendi e sposti. a cinquantanni poi ricominciare da capo un nuovo lavoro non è banale. in altre parole questo processo di riallocazione non è istantaneo e porta per forza di cose a un crollo della domanda aggregata.
la deflazione da offerta, dunque, a meno che non avviene in modo tale da tutelare lavoro e salari, a me continua a sembrare brutta perchè porta alla deflazione da domanda: le persone perdono il lavoro e sono meno propense a spendere soldi, facendo aumentare la domanda di moneta.
con questo non voglio dire che penso sia giusto adottare un atteggiamento neoluddista. ma anche qualora la produttivitá aumenti, i salari reali dei lavoratori devono aumentare in modo proporzionale, prima ancora di pensare a diminuire i prezzi. questa cosa non succede da quarant'anni a questa parte. cio porta a una frazione di prodotto sempre maggiore che finisce nelle mani delle imprese, e una frazione sempre minore che finisce nelle tasche di chi campa di lavoro, cioè quasi tutti.
Come giustamente hai notato, la quota salari può variare molto. Turismo e sanità fanno parte del terziario, ma hanno spese per materiali maggiori rispetto (per esempio) agli psicologi.
EliminaImmaginiamo comunque un settore i cui costi di produzione siano esclusivamente dovuti ai salari: non è detto che la deflazione da offerta li riduca. Se infatti aumenta la produttività dei lavoratori, significa che producono più beni/servizi. Se (per esempio) raddoppia la quantità di beni/servizi prodotti, il prezzo può dimezzare (deflazione da offerta), lasciando invariato il salario nominale dei lavoratori.
Consideriamo ora il caso particolare in cui la domanda per quei beni/servizi non raddoppi di fronte al dimezzamento di prezzo. In tal caso, il salario può ridursi. Ma i soldi che i consumatori risparmiano (grazie ai prezzi minori) possono essere spesi per altri beni. Questo aumenta profitti e stipendi in altri settori, i cui azionisti e lavoratori possono spendere di più. In sostanza: cambia la ripartizione della domanda aggregata, ma non il suo valore totale. E questo avviene indipendentemente dal fatto che i lavoratori del primo settore riescano a cambiare lavoro oppure no.
Aggiungo che, certamente, non è sempre facile o immediato cambiare lavoro. Infatti non dev'essere un processo istantaneo. Mentre cercano altre opzioni lavorative, i lavoratori di quel settore possono accettare una temporanea riduzione di stipendio. Esistono poi assicurazioni in caso di licenziamento e/o assegni di disoccupazione, i quali consentono di ricevere uno stipendio equivalente durante i mesi in cui si cerca un altro lavoro. In sostanza, ci sono modi per rendere più agevole e "indolore" la transizione.
In passato ho affrontato la questione della produttività e dei salari ( http://ride-bene-chi-ha-buon-senso.blogspot.it/2016/11/miti-statalisti-1-salari-e-produttivita.html ). In sostanza, la compensazione dei lavoratori è davvero aumentata assieme alla produttività. Il punto è che i salari sono solo una parte della compensazione. Inoltre i lavori di oggi coinvolgono una maggiore quantità di macchinari e di tecnologia, per cui una parte maggiore degli introiti deve andare alla loro manutenzione/sostituzione.
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