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lunedì 22 febbraio 2016

Gli errori dell'inflazionismo (3/3) - l'evidenza empirica

Terza ed ultima puntata dedicata agli errori dell'inflazionismo. Qui la seconda parte. 



Nelle scorse puntate abbiamo "fatto le pulci" ai principali argomenti teorici a sostegno della politica di inflation targeting [1]. Come abbiamo spiegato, tali argomenti possono giustificare gli sforzi volti ad evitare la deflazione (cattiva) da domanda; falliscono invece per quanto riguarda la deflazione (buona) da offerta. Perciò, lungi dal fornire una base teorica per mantenere un tasso d'inflazione costante, sembrano al più giustificare l'obiettivo di tenere costante il livello della domanda aggregata (cioè del PIL nominale [2]). 
Questo per quanto riguarda la teoria. Ma cosa si può dire guardando all'evidenza empirica? I sostenitori dell'inflazionismo ritengono che la deflazione sia storicamente correlata a periodi di crisi e che - dati alla mano - un tasso d'inflazione positivo (ma contenuto) sia più propizio all'attività economica. 


Figura tratta dall'articolo "Dobbiamo preoccuparci della deflazione? Forse che sì forse che no.
di Michele Boldrin, Giovanni Federico e Giulio Zanella.

Al contrario, i dati mostrano una realtà molto diversa: i casi in cui si sono verificati contemporaneamente calo dei prezzi e crisi dell'attività produttiva sono minoritari rispetto a quelli in cui si è avuta crescita economica in presenza di deflazione. Per esempio, è ben noto che nella seconda metà del 1800 molti paesi sperimentarono lunghi periodi (2-3 decenni) di deflazione e crescita in contemporanea. A questo proposito, conviene citare i risultati di uno studio (Deflation and Depression: Is There an Empirical Link?) pubblicato nel 2004 da Andrew Atkenson e Patrick J. Kehoe. Dopo aver analizzato i dati di 17 paesi lungo un periodo storico di circa due secoli (1820-2000) gli autori concludono: 
I dati suggeriscono che la deflazione non è strettamente legata alla depressione economica. Osservando un esteso periodo storico, si trovano molti più periodi di deflazione con crescita ragionevole che con depressione, e molti più periodi di depressione con inflazione che con deflazione. Complessivamente, i dati non mostrano pressoché alcuna connessione tra deflazione e depressione.
Questo non ci sorprende, perché abbiamo visto che la deflazione da offerta è un fenomeno positivo per l'attività economica. Prima dell'avvento delle Banche Centrali e dell'inflation targeting, era normale che gli incrementi di produttività si traducessero in prezzi più bassi. 
La cattiva nomea della deflazione deriva invece dagli episodi in cui è comparsa dal lato della domanda - spesso a seguito dello scoppio di gravi crisi finanziare, come durante la Grande Depressione degli anni '30 o durante il cosiddetto "decennio perduto" giapponese negli anni '90. 

Fortunatamente, sempre più economisti (di diverse scuole di pensiero) sottolineano le differenze tra i due tipi di deflazione, riconoscendo più o meno esplicitamente l'infondatezza delle tesi inflazioniste [3]. Di seguito viene proposta una breve raccolta di articoli dedicati a tale argomento: 

Le Favole sulla Deflazione di Matteo Corsini 
Non Abbiate Timore della Deflazione di Jon Matonis 
A Plea for (Mild) Deflation di George Selgin 
Lo spauracchio della spirale deflazionistica di Robert Blumen 
Pil: crescere nonostante la deflazione sarchiaponica di Fabio Scacciavillani 

Ricapitolando, abbiamo visto che le tesi inflazioniste sono insufficienti a giustificare l'obiettivo di inflazione (inflation targeting) delle Banche Centrali. Esse falliscono nel trovare effetti negativi da parte della deflazione da offerta; la loro validità è limitata al caso della deflazione da domanda. Per contrastare quest'ultima è sufficiente - in prima approssimazione - mantenere costante il livello della domanda aggregata (cioè il  PIL nominale) e non il tasso d'inflazione. 
Per concludere, vale la pena chiedersi se un sistema a Banca Centrale sia effettivamente necessario a raggiungere tale obiettivo. Infatti, come abbiamo accennato in un precedente articoloun sistema di free banking consente alle banche di aggiustare l'offerta di moneta alla sua domanda. Un aumento della domanda di moneta viene compensato da una maggiore emissione di moneta bancaria (ovvero da un aumento dei prestiti bancari) mantenendo inalterato il livello della domanda aggregata. Perciò un sistema di free banking è in grado di prevenire automaticamente la deflazione da domanda, rendendo inutile (sotto questo aspetto) l'esistenza di una Banca Centrale.

Weierstrass 

[1] Ovviamente non abbiamo trattato tutti i tentativi di giustificare il perseguimento di un tasso d'inflazione positivo. Un esempio su tutti è il "classico" suggerimento keynesiano di usare l'inflazione per erodere i salari reali in periodi di crisi economica. Tali argomenti - solitamente volti a magnificare le "possibili applicazioni" dell'inflazione - verranno trattati in futuri articoli.  

[2] Ciò comporta che il livello medio dei prezzi possa scendere in seguito ad aumenti di produttività. In generale, tale sistema fa sì che l'inflazione si presenti solo a seguito di shock negativi dal lato dell'offerta. Esistono alcune correnti di pensiero economiche che ruotano attorno a questo concetto; una proposta simile è il NGDP targeting, cioè il mantenimento di un tasso di crescita costante del PIL nominale. 


[3] A titolo di esempio, ricordiamo che nel 2014 si verificò un modesto calo del livello dei prezzi (trainato soprattutto dai beni energetici). Il presidente della Banca Centrale tedesca disse al riguardo: "Il calo dei prezzi energetici è come un piccolo programma di aiuti per la congiuntura: rafforza il potere d'acquisto dei consumatori, accresce gli utili delle aziende". Analogamente, un articolo de Il Sole 24 Ore sosteneva: "Non sempre la deflazione è un male. Un calo dei prezzi aumenta il potere d'acquisto delle famiglie, e può rendere più competitive le merci all'estero. Tutto dipende quindi dalla causa: se la causa è un aumento della produttività, o una trasformazione strutturale dei mercato, che diventa più concorrenziale, non va temuta. Se dipende invece da una recessione, va temuta innanzitutto la recessione e la disoccupazione che a essa si accompagna". 

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