Le disuguaglianze economiche vengono sempre più spesso demonizzate, quasi sempre facendo leva su aspetti di carattere emotivo anziché logico. Talvolta, però, vengono usati argomenti di teoria economica. Confutiamoli.
Esistono due tipi di disuguaglianze economiche: di reddito e di ricchezza [1]. Quando alcuni individui guadagnano più di altri, c'è disuguaglianza di reddito; quando alcuni hanno più risparmi o beni di altri, c'è disuguaglianza di ricchezza [2]. Ma come mai esistono tali disuguaglianze? La loro esistenza è un bene, o un male?
Iniziamo dalla disuguaglianza di reddito. In un libero mercato, il reddito di una persona rappresenta la remunerazione per il suo lavoro, cioè per la sua produzione di beni/servizi [3]. Perciò esso dipende dalla produttività: maggiore è la seconda, maggiore (a parità di tutto il resto) è il primo [4,5]. Da ciò deriva che i lavoratori più produttivi ricevano redditi maggiori rispetto ai lavoratori meno produttivi, ovvero che possano esistere disuguaglianze di reddito. La produttività di una persona può differire da quella altrui per varie ragioni (bravura personale e/o utilità del bene/servizio prodotto [6]) ma, in ogni caso, è ragionevole che ciò si rifletta sulla sua remunerazione.
In sostanza: viene remunerato di più chi svolge un'attività economica più utile [7] agli occhi delle altre persone, cioè dei consumatori e/o degli imprenditori che pagano per essa. E' una questione di buon senso, oltre che di teoria economica. A questo proposito, ricordiamo che un'appropriata remunerazione (tale da riflettere l'utilità dei beni/servizi prodotti) incentiva un'efficiente allocazione delle risorse.
Veniamo ora alla disuguaglianza di ricchezza. Se una persona ha risparmiato più di un'altra, detiene una maggiore ricchezza [8]. Infatti la ricchezza personale è fortemente correlata all'età: le persone prossime al pensionamento, avendo (lavorato e) risparmiato per 30-40 anni, sono mediamente più ricche rispetto a chi è appena entrato nel mondo del lavoro (i giovani). Ovviamente un reddito maggiore consente (a parità di tasso di risparmio) di accumulare più ricchezza rispetto ad un reddito minore - e, come abbiamo visto sopra, il reddito dipende dalla produttività [9].
Quindi le disuguaglianze di reddito e di ricchezza, riflettendo le disuguaglianze di produttività e di risparmio, non sono un male per l'attività economica. Anzi: svolgono l'importante ruolo di incentivare i comportamenti produttivi (risparmiare, lavorare bene e in maniera utile). Come mai, allora, alcuni le considerano un male per l'economia di un paese?
Un motivo risiede nella cosiddetta fixed pie fallacy (traducibile in italiano con l'espressione "fallacia della torta fissa"). Infatti alcuni ritengono che la ricchezza totale sia una quantità fissata (una "torta") per cui una persona può riceverne una "fetta" maggiore solo se qualcun altro ne riceve una minore. In tale ottica, la persona che si arricchisce ne sta impoverendo un'altra.
Si tratta di una grossolana fallacia: la ricchezza può essere sia creata sia distrutta, non si tratta di una quantità fissata. Generalmente, ogni anno, la ricchezza prodotta nel mondo aumenta; e lo fa ad un ritmo superiore all'aumento di popolazione. Chiunque produca beni/servizi utili agli altri contribuisce ad aumentare la ricchezza disponibile; chi produce di più contribuisce di più, e quindi (in un libero mercato) viene maggiormente remunerato. Perciò il fatto che una persona guadagni più di altre non implica in alcun modo che quest'ultime ne vengano impoverite; al contrario, esse possono godere di una quantità maggiore di beni/servizi.
Tale approccio commette lo stesso errore esaminato poco sopra: trascura il fatto che (in un libero mercato) il reddito di una persona possa aumentare solo se quest'ultima produce più beni e servizi, o beni e servizi più utili. Il reddito dei "ricchi" (cioè la remunerazione per i beni e i servizi che producono) contribuisce ad aumentare il reddito totale (il quale riflette la produzione totale di beni e servizi), perciò non può impoverire nessuno. Inoltre, in tale dibattito, è ugualmente grave trascurare la mobilità sociale. Le categorie dei "ricchi" e dei "poveri" non sono composte ogni anno dalle stesse persone. Secondo uno studio dell'Università del Michigan, più del 95% degli Americani che nel 1975 appartenevano al 20% di famiglie più povere (cioè nel quintile più povero) erano finiti nei quintili superiori entro il 1991. Secondo uno studio del Williams Group, il 70% delle famiglie ricche perde la propria ricchezza entro la seconda generazione; entro la terza, diventano il 90 percento. E così via. Quindi, poiché l'1% più ricco della popolazione (così come l'1% più povero) cambia la sua composizione nel corso degli anni, l'idea che un (più o meno) ristretto gruppo di persone possa arricchirsi a danno di tutte le altre è totalmente priva di fondamento - sia pratico, sia teorico.
Un altro motivo usato per criticare le disuguaglianze economiche sostiene che i ricchi abbiano una minore propensione marginale al consumo rispetto ai poveri. Si suppone che ciò comporti una minore domanda aggregata e risulti in una minore produzione di beni/servizi. Dunque, secondo tale ragionamento, le disuguaglianze economiche riducono la crescita economica.
Questa critica è sbagliata sotto tre aspetti. In primo luogo, un minor consumo - cioè un maggior risparmio - consente di fare più investimenti [10]. Poiché gli investimenti contribuiscono alla domanda aggregata, non c'è motivo di credere che la supposizione sopra citata sia generalmente corretta: se i minori consumi sono compensati da maggiori investimenti, la loro somma (cioè la domanda aggregata) rimane invariata. In secondo luogo, anche supponendo che in una particolare situazione i maggiori investimenti non compensino i minori consumi, si deve tener conto degli effetti di medio e lungo periodo. Gli investimenti di oggi servono ad aumentare la capacità produttiva nel futuro; le attuali infrastrutture e tecnologie, per esempio, sono frutto del risparmio e degli investimenti passati. Perciò, anche in tale evenienza, non ci sarebbe nulla di male nel "sacrificare" la produzione attuale in cambio di una ben maggiore produzione futura. Infine, contrastare le disuguaglianze (tramite politiche redistributive) ha effetti negativi sulla crescita economica. Infatti "punire" i risparmiatori ed i ceti più produttivi ha, come ovvia conseguenza, il disincentivo a risparmiare e a produrre. Perciò non è affatto scontato che l'effetto netto di una redistribuzione della ricchezza sia positivo: se gli effetti negativi sulla produzione, sul risparmio e sugli investimenti superassero quelli positivi sui consumi, il risultato totale sarebbe negativo. E questa è la conclusione più probabile, soprattutto considerando un periodo di tempo medio-lungo.
CONCLUSIONE
Abbiamo visto come, in un libero mercato, le disuguaglianze economiche (cioè di reddito e di ricchezza) riflettano le differenze nella produttività e nel risparmio degli individui. Premiare i comportamenti produttivi implica necessariamente che chi svolge una funzione più utile venga remunerato di più. Gli argomenti usati contro le disuguaglianze economiche (e a favore di politiche redistributive) trascurano questi aspetti, e si basano invece su analisi parziali o - nei casi peggiori - su vere e proprie fallacie.
Weierstrass
[2] Ovviamente dipende da come si definisce "ricchezza". In genere, oltre ai risparmi, vengono inclusi titoli finanziari e beni immobili.
[3] Ciò non è necessariamente vero in presenza di interferenze statali. Una persona potrebbe non produrre alcun bene/servizio che abbia valore per gli altri, ma nondimeno il Governo potrebbe obbligare quest'ultimi (tramite il prelievo fiscale) a pagarle uno stipendio.
[4] Difficilmente qualcuno - tanto meno se economista - obbietterà all'idea che (per esempio) il reddito di un paninaro aumenti all'aumentare del numero di panini che riesce a vendere. Solo la teoria marxista avrebbe qualcosa da ridire, ma ne abbiamo già discusso gli errori.
[5] Se la remunerazione non dipendesse dalla produttività, non ci sarebbe alcun incentivo ad essere più produttivi anziché meno. Detto con altre parole: imporre un reddito uguale per tutti spingerebbe tutti a lavorare il meno possibile, ovvero ad essere poveri.
[6] A parità di mansione svolta, se una persona lavora meglio di un'altra, è ovvio che ricavi un reddito maggiore. Si giunge alla medesima conclusione anche qualora una persona svolga un'attività più richiesta rispetto all'attività svolta da un'altra.
[7] Questo è vero anche per i redditi derivanti da attività finanziarie. Risparmiare ed investire il proprio denaro in attività produttive è - a sua volta - un'attività economica. E, come ogni altra attività, va adeguatamente remunerata.
Esistono due tipi di disuguaglianze economiche: di reddito e di ricchezza [1]. Quando alcuni individui guadagnano più di altri, c'è disuguaglianza di reddito; quando alcuni hanno più risparmi o beni di altri, c'è disuguaglianza di ricchezza [2]. Ma come mai esistono tali disuguaglianze? La loro esistenza è un bene, o un male?
Iniziamo dalla disuguaglianza di reddito. In un libero mercato, il reddito di una persona rappresenta la remunerazione per il suo lavoro, cioè per la sua produzione di beni/servizi [3]. Perciò esso dipende dalla produttività: maggiore è la seconda, maggiore (a parità di tutto il resto) è il primo [4,5]. Da ciò deriva che i lavoratori più produttivi ricevano redditi maggiori rispetto ai lavoratori meno produttivi, ovvero che possano esistere disuguaglianze di reddito. La produttività di una persona può differire da quella altrui per varie ragioni (bravura personale e/o utilità del bene/servizio prodotto [6]) ma, in ogni caso, è ragionevole che ciò si rifletta sulla sua remunerazione.
In sostanza: viene remunerato di più chi svolge un'attività economica più utile [7] agli occhi delle altre persone, cioè dei consumatori e/o degli imprenditori che pagano per essa. E' una questione di buon senso, oltre che di teoria economica. A questo proposito, ricordiamo che un'appropriata remunerazione (tale da riflettere l'utilità dei beni/servizi prodotti) incentiva un'efficiente allocazione delle risorse.
Veniamo ora alla disuguaglianza di ricchezza. Se una persona ha risparmiato più di un'altra, detiene una maggiore ricchezza [8]. Infatti la ricchezza personale è fortemente correlata all'età: le persone prossime al pensionamento, avendo (lavorato e) risparmiato per 30-40 anni, sono mediamente più ricche rispetto a chi è appena entrato nel mondo del lavoro (i giovani). Ovviamente un reddito maggiore consente (a parità di tasso di risparmio) di accumulare più ricchezza rispetto ad un reddito minore - e, come abbiamo visto sopra, il reddito dipende dalla produttività [9].
Ricchezza media e mediana per fasce di età (dati 2013, USA). Le persone tendono ad accumulare risparmi durante gli anni lavorativi e a consumarli (in parte) durante la pensione. |
Quindi le disuguaglianze di reddito e di ricchezza, riflettendo le disuguaglianze di produttività e di risparmio, non sono un male per l'attività economica. Anzi: svolgono l'importante ruolo di incentivare i comportamenti produttivi (risparmiare, lavorare bene e in maniera utile). Come mai, allora, alcuni le considerano un male per l'economia di un paese?
Un motivo risiede nella cosiddetta fixed pie fallacy (traducibile in italiano con l'espressione "fallacia della torta fissa"). Infatti alcuni ritengono che la ricchezza totale sia una quantità fissata (una "torta") per cui una persona può riceverne una "fetta" maggiore solo se qualcun altro ne riceve una minore. In tale ottica, la persona che si arricchisce ne sta impoverendo un'altra.
Si tratta di una grossolana fallacia: la ricchezza può essere sia creata sia distrutta, non si tratta di una quantità fissata. Generalmente, ogni anno, la ricchezza prodotta nel mondo aumenta; e lo fa ad un ritmo superiore all'aumento di popolazione. Chiunque produca beni/servizi utili agli altri contribuisce ad aumentare la ricchezza disponibile; chi produce di più contribuisce di più, e quindi (in un libero mercato) viene maggiormente remunerato. Perciò il fatto che una persona guadagni più di altre non implica in alcun modo che quest'ultime ne vengano impoverite; al contrario, esse possono godere di una quantità maggiore di beni/servizi.
Tale approccio commette lo stesso errore esaminato poco sopra: trascura il fatto che (in un libero mercato) il reddito di una persona possa aumentare solo se quest'ultima produce più beni e servizi, o beni e servizi più utili. Il reddito dei "ricchi" (cioè la remunerazione per i beni e i servizi che producono) contribuisce ad aumentare il reddito totale (il quale riflette la produzione totale di beni e servizi), perciò non può impoverire nessuno. Inoltre, in tale dibattito, è ugualmente grave trascurare la mobilità sociale. Le categorie dei "ricchi" e dei "poveri" non sono composte ogni anno dalle stesse persone. Secondo uno studio dell'Università del Michigan, più del 95% degli Americani che nel 1975 appartenevano al 20% di famiglie più povere (cioè nel quintile più povero) erano finiti nei quintili superiori entro il 1991. Secondo uno studio del Williams Group, il 70% delle famiglie ricche perde la propria ricchezza entro la seconda generazione; entro la terza, diventano il 90 percento. E così via. Quindi, poiché l'1% più ricco della popolazione (così come l'1% più povero) cambia la sua composizione nel corso degli anni, l'idea che un (più o meno) ristretto gruppo di persone possa arricchirsi a danno di tutte le altre è totalmente priva di fondamento - sia pratico, sia teorico.
Un altro motivo usato per criticare le disuguaglianze economiche sostiene che i ricchi abbiano una minore propensione marginale al consumo rispetto ai poveri. Si suppone che ciò comporti una minore domanda aggregata e risulti in una minore produzione di beni/servizi. Dunque, secondo tale ragionamento, le disuguaglianze economiche riducono la crescita economica.
Questa critica è sbagliata sotto tre aspetti. In primo luogo, un minor consumo - cioè un maggior risparmio - consente di fare più investimenti [10]. Poiché gli investimenti contribuiscono alla domanda aggregata, non c'è motivo di credere che la supposizione sopra citata sia generalmente corretta: se i minori consumi sono compensati da maggiori investimenti, la loro somma (cioè la domanda aggregata) rimane invariata. In secondo luogo, anche supponendo che in una particolare situazione i maggiori investimenti non compensino i minori consumi, si deve tener conto degli effetti di medio e lungo periodo. Gli investimenti di oggi servono ad aumentare la capacità produttiva nel futuro; le attuali infrastrutture e tecnologie, per esempio, sono frutto del risparmio e degli investimenti passati. Perciò, anche in tale evenienza, non ci sarebbe nulla di male nel "sacrificare" la produzione attuale in cambio di una ben maggiore produzione futura. Infine, contrastare le disuguaglianze (tramite politiche redistributive) ha effetti negativi sulla crescita economica. Infatti "punire" i risparmiatori ed i ceti più produttivi ha, come ovvia conseguenza, il disincentivo a risparmiare e a produrre. Perciò non è affatto scontato che l'effetto netto di una redistribuzione della ricchezza sia positivo: se gli effetti negativi sulla produzione, sul risparmio e sugli investimenti superassero quelli positivi sui consumi, il risultato totale sarebbe negativo. E questa è la conclusione più probabile, soprattutto considerando un periodo di tempo medio-lungo.
CONCLUSIONE
Abbiamo visto come, in un libero mercato, le disuguaglianze economiche (cioè di reddito e di ricchezza) riflettano le differenze nella produttività e nel risparmio degli individui. Premiare i comportamenti produttivi implica necessariamente che chi svolge una funzione più utile venga remunerato di più. Gli argomenti usati contro le disuguaglianze economiche (e a favore di politiche redistributive) trascurano questi aspetti, e si basano invece su analisi parziali o - nei casi peggiori - su vere e proprie fallacie.
Weierstrass
[1] La classica distinzione si basa sul fatto che il reddito è un flusso, mentre la ricchezza è uno stock. Detto diversamente: il reddito è la quantità di denaro (o di beni equivalenti) che si riceve in un determinato periodo di tempo, mentre la ricchezza è la quantità di denaro (o di beni equivalenti) che è stata accumulata nel tempo fino ad ora.
[2] Ovviamente dipende da come si definisce "ricchezza". In genere, oltre ai risparmi, vengono inclusi titoli finanziari e beni immobili.
[3] Ciò non è necessariamente vero in presenza di interferenze statali. Una persona potrebbe non produrre alcun bene/servizio che abbia valore per gli altri, ma nondimeno il Governo potrebbe obbligare quest'ultimi (tramite il prelievo fiscale) a pagarle uno stipendio.
[4] Difficilmente qualcuno - tanto meno se economista - obbietterà all'idea che (per esempio) il reddito di un paninaro aumenti all'aumentare del numero di panini che riesce a vendere. Solo la teoria marxista avrebbe qualcosa da ridire, ma ne abbiamo già discusso gli errori.
[5] Se la remunerazione non dipendesse dalla produttività, non ci sarebbe alcun incentivo ad essere più produttivi anziché meno. Detto con altre parole: imporre un reddito uguale per tutti spingerebbe tutti a lavorare il meno possibile, ovvero ad essere poveri.
[6] A parità di mansione svolta, se una persona lavora meglio di un'altra, è ovvio che ricavi un reddito maggiore. Si giunge alla medesima conclusione anche qualora una persona svolga un'attività più richiesta rispetto all'attività svolta da un'altra.
[7] Questo è vero anche per i redditi derivanti da attività finanziarie. Risparmiare ed investire il proprio denaro in attività produttive è - a sua volta - un'attività economica. E, come ogni altra attività, va adeguatamente remunerata.
[8] Certamente la ricchezza può essere ereditata. Alcuni adducono questa eventualità per sostenere che le disuguaglianze dovute ai patrimoni ereditati siano "ingiustificate" o "non meritate". Ma tale ragionamento trascura che (1) ciascun accumulo di ricchezza è nato per merito di qualcuno (il defunto risparmiatore) perciò la sua esistenza è pienamente giustificata; (2) solo il proprietario di tale ricchezza può stabilire chi sia meritevole di riceverla - cioè gli eredi da lui designati; (3) se quest'ultimi non consumano tale ricchezza, significa che la risparmiano a loro volta.
[9] Peraltro il reddito tende ad aumentare con l'età, poiché la maggiore esperienza del lavoratore si traduce - solitamente - in una maggiore produttività. Quindi l'età anagrafica contribuisce anche alla disuguaglianza di reddito.
[10] Abbiamo spiegato questo concetto anche durante la nostra trattazione sugli errori dell'inflazionismo.
[10] Abbiamo spiegato questo concetto anche durante la nostra trattazione sugli errori dell'inflazionismo.
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