Recentemente abbiamo dedicato un articolo al tema delle disuguaglianze economiche e agli errori commessi da chi le critica. Sempre sullo stesso argomento, oggi discuteremo le tesi dell'economista francese Thomas Piketty, autore del libro "Il capitale nel XXI secolo" e noto proponente di politiche statali redistributive.
Nel suo libro Piketty sostiene - in estrema sintesi - che un sistema economico di libero mercato (capitalismo) tenda a produrre disuguaglianze economiche crescenti. Dal punto di vista empirico, il libro presenta vari dati per mostrare che nell'ultimo secolo (con l'eccezione del periodo 1930-1975 [1]) le disuguaglianze siano costantemente cresciute in tutto il mondo. Piketty ritiene che questo fenomeno sia dovuto alla continua accumulazione di capitale da parte di chi già lo possiede (i capitalisti). Il suo ragionamento si basa su tre "leggi fondamentali" del capitalismo:
Dove:
Per evitare un simile scenario, sostiene Piketty, sono necessarie politiche statali volte a redistribuire la ricchezza. Per esempio: tasse (ancora più) progressive sul reddito, tasse di successione e tasse patrimoniali (ancora più) elevate, etc. Come era ovvio aspettarsi, il libro ha riscosso un discreto successo presso tutte quelle persone e quelle istituzioni che favoriscono l'intervento statale in economia - a maggior ragione quando comporta l'incameramento di maggiori introiti fiscali nelle mani dei Governi. Tuttavia, come vedremo nel corso di questa analisi, il lavoro di Piketty presenta vari errori a livello empirico, teorico e concettuale.
Prima di esaminare nel dettaglio la sua teoria, riteniamo opportuno fare un paio di precisazioni. Anzitutto, ricordiamo che il capitale consiste nei mezzi di produzione e non, come lo definisce erroneamente Piketty [4,5], in "tutte le cose che possiedono un valore e che possono essere vendute o scambiate". Le tre leggi di cui sopra perdono senso, se al termine capitale viene dato un significato diverso da quello originale.
- reddito totale = produzione totale = Prodotto Interno Lordo (PIL)
- α = quota dei profitti (al netto delle perdite di capitale) sul reddito totale
- β = rapporto tra capitale e produzione totale
- r = tasso di rendimento del capitale (al netto delle perdite di capitale [2])
- s = tasso di risparmio (al netto degli ammortamenti) sul reddito totale
- g = tasso di crescita del PIL
La prima legge è un'identità: la quota dei profitti sul reddito nazionale è data dal prodotto tra il tasso di rendimento netto del capitale ed il rapporto capitale/output. La seconda legge dice che, nel lungo periodo, il rapporto tra capitale e PIL (anche detto "rapporto capitale/output") è dato dal rapporto tra il tasso di risparmio netto ed il tasso di crescita dell'economia. Infine la terza legge sostiene che il tasso di rendimento del capitale tenda ad essere maggiore del tasso di crescita dell'economia (soprattutto quando quest'ultima è bassa, come Piketty prevede che sarà nel prossimo futuro).
Tradotta in parole semplici, la teoria di Piketty sostiene che i capitalisti impieghino il rendimento netto del capitale per accumulare ancor più capitale. Se il tasso di rendimento netto del capitale è maggiore della crescita economica, la quantità di capitale aumenta rispetto al PIL. Conseguentemente aumenta la quota di reddito nazionale che va ai capitalisti. Ciò significa che il reddito e la ricchezza dei capitalisti aumenteranno sempre di più rispetto al resto della popolazione [3], ovvero cresceranno le disuguaglianze economiche.
Per evitare un simile scenario, sostiene Piketty, sono necessarie politiche statali volte a redistribuire la ricchezza. Per esempio: tasse (ancora più) progressive sul reddito, tasse di successione e tasse patrimoniali (ancora più) elevate, etc. Come era ovvio aspettarsi, il libro ha riscosso un discreto successo presso tutte quelle persone e quelle istituzioni che favoriscono l'intervento statale in economia - a maggior ragione quando comporta l'incameramento di maggiori introiti fiscali nelle mani dei Governi. Tuttavia, come vedremo nel corso di questa analisi, il lavoro di Piketty presenta vari errori a livello empirico, teorico e concettuale.
Prima di esaminare nel dettaglio la sua teoria, riteniamo opportuno fare un paio di precisazioni. Anzitutto, ricordiamo che il capitale consiste nei mezzi di produzione e non, come lo definisce erroneamente Piketty [4,5], in "tutte le cose che possiedono un valore e che possono essere vendute o scambiate". Le tre leggi di cui sopra perdono senso, se al termine capitale viene dato un significato diverso da quello originale.
In secondo luogo, facciamo qualche considerazione di buon senso. In un libero mercato, il reddito di una persona deriva dai beni e dai servizi che produce. Infatti il reddito da capitale deriva dalla produttività del capitale: i mezzi di produzione vengono usati (appunto) per produrre beni e servizi, che poi vengono venduti sul mercato; parte del guadagno così ottenuto va a remunerare chi ha fornito i mezzi di produzione (i capitalisti [6]). La quantità e la produttività del capitale possono essere incrementate tramite risparmi e investimenti, aumentando di conseguenza la quantità futura di beni e servizi di cui la società potrà godere. Detto altrimenti: il risparmio di oggi finanzia gli investimenti che incrementeranno la produzione di domani.
Vista in quest'ottica, la narrazione di Piketty perde i suoi toni drammatici. Il reddito dei capitalisti dipende dall'utilità del loro ruolo (fornire il capitale e scegliere come impiegarlo), mentre il loro risparmio - come quello di chiunque altro - contribuisce alla crescita economica futura. Anche dando per buone (o a maggior ragione?) le ipotesi di Piketty, l'accumulazione di capitale sarebbe un fattore nettamente positivo. Inoltre, come spiegato in precedenza, le disuguaglianze sorte in un libero mercato non comportano alcun male per la società o per i singoli individui. Anzi.
Weierstrass
[1] L'eccezione - secondo Piketty - è dovuta principalmente alle guerre e alle politiche statali redistributive di quel periodo: quest'ultime hanno ostacolato l'accumulo di ricchezza, mentre le prime hanno distrutto (parte di) quella già accumulata.
[2] Piketty definisce il tasso di rendimento puro del capitale (esempio) come il tasso di rendimento del capitale al netto delle tasse e delle perdite di capitale. Quest'ultimo è un aspetto importante, poiché il reddito da capitale deve essere impiegato (anche) per mantenere - riparare, sostituire - il livello attuale di capitale. Perciò lo abbiamo reso esplicito nelle formule matematiche.
[3] Piketty assume (correttamente) che il capitale non sia posseduto omogeneamente da tutta la popolazione: alcuni ce l'hanno, altri no; alcuni di più, altri di meno. E' però errato assumere - come fa - che chi lo detenga oggi lo possiederà anche in futuro. Ritorneremo su questo punto.
[4] Piketty usa come sinonimi i termini capitale e ricchezza, nonostante siano cose nettamente diverse. Un'abitazione privata e un'automobile contribuiscono alla ricchezza del loro proprietario, ma non servono a produrre beni o servizi. Non ha senso chiedersi quale sia il loro tasso di rendimento. Diverse critiche al suo libro vertono proprio su questo punto.
Per inciso, qualcuno potrebbe sostenere che l'abitazione fornisca un "servizio" al proprietario, pari al reddito che egli avrebbe ottenuto se l'avesse affittata. Ma tale "servizio" viene interamente "consumato" (cioè non viene risparmiato) dal proprietario, quindi non contribuisce al processo di accrescimento delle disuguaglianze descritto da Piketty. Perciò ha (se possibile) ancora meno senso impiegare tale definizione "allargata" di capitale in questo contesto. [4] Piketty usa come sinonimi i termini capitale e ricchezza, nonostante siano cose nettamente diverse. Un'abitazione privata e un'automobile contribuiscono alla ricchezza del loro proprietario, ma non servono a produrre beni o servizi. Non ha senso chiedersi quale sia il loro tasso di rendimento. Diverse critiche al suo libro vertono proprio su questo punto.
[5] Piketty usa tale definizione per escludere il capitale umano (che, in generale, non può essere venduto) dal computo del capitale. Con l'espressione capitale umano si vuole sottolineare il fatto che ognuno possa usare il proprio corpo ed il proprio intelletto per produrre beni o servizi. In questo senso, si potrebbe dire che siamo tutti capitalisti.
[6] In generale, i capitalisti possiedono il capitale perché l'hanno acquistato o coi propri risparmi, o con denaro preso in prestito. Essi poi lo mettono a disposizione della manodopera che assumono. E' quindi evidente che si debba remunerare tale ruolo (servizio) - altrimenti non ci sarebbe alcun incentivo a fornire i mezzi di produzione. I marxisti falliscono proprio nel comprendere tali concetti.
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