Cerca nel blog

mercoledì 19 ottobre 2016

Gli errori di Thomas Piketty (3/5) - modelli e contraddizioni

Terza puntata dedicata agli errori contenuti nel libro "Il capitale nel XXI secolo" scritto dall'economista francese Thomas Piketty. Qui la seconda parte.




Abbiamo concluso la precedente puntata discutendo le stranezze derivanti dalla seconda "legge fondamentale del capitalismo" e notando che l'ipotesi di un tasso di risparmio netto costante e positivo sia errata. Ma i problemi non finiscono qui. 

La seconda legge, al contrario della prima, non è un'identità. Non è vera sempre e comunque, ma deriva da un modello economico, quello di Harrod-Domar. Vediamo allora cosa dice tale modello: 
  • si assume che la produzione economica (Y) dipenda unicamente dalla quantità disponibile di capitale (K) e dalla sua produttività media; 
  • si assume che la produttività marginale del capitale (1/β) sia costante e pari alla produttività media;
  • sia assume che tutti i risparmi vengono impiegati per fare investimenti (I), cioè per formare nuovo capitale e mantenere quello esistente; 
  • date tali premesse, si ottiene che il tasso di crescita economica (g) sia pari al prodotto tra il tasso di risparmio netto (s) e la produttività marginale del capitale, ovvero g = s / β .
Tradotto in parole povere, si assume che aumentare la quantità di capitale comporti un proporzionale aumento del PIL, e che la proporzionalità sia costante nel tempo [1]. Quest'ultima è un'ipotesi accettabile solo nel breve periodo (meno di un anno, per intenderci [2]). Infine, tenendo conto del deprezzamento del capitale, si ottiene l'equazione sopra citata. Per inciso, una conseguenza di questo modello è che il rapporto capitale/PIL sia uguale all'inverso della produttività marginale (cioè uguale a β) e che quindi sia costante nel breve periodo: tanto aumenta il capitale, tanto aumenta il PIL. A sua volta, anche il rapporto tra s e g risulta costante nel breve periodo. 
Piketty applica tale modello al lungo periodo. Assume che la produttività marginale del capitale sia costante per un lungo periodo di tempo (ma non che sia uguale alla produttività media [3]); ciò implica automaticamente che il rapporto tra s e g sia costante nel lungo periodo. Dopo n-anni (con n sufficientemente grande) il rapporto capitale/PIL tende a eguagliare l'inverso della produttività marginale, ovvero β. Infine, riprendendo l'equazione di Harrod-Domar, si ottiene che il rapporto capitale/PIL di lungo periodo è dato dall'equazione β = s / g 

Arrivati qui, possiamo fare due considerazioni. La prima è che, se si assume che il rapporto tra s e g sia costante nel lungo periodo, non ha senso ipotizzare che g diminuisca senza che s faccia altrettanto. Non dev'essere necessariamente una reazione istantanea, ma - proprio perché si sta parlando di lungo periodo - prima o poi deve avvenire. Al massimo, con qualche approssimazione, si può ipotizzare che s diminuisca sempre un pochino meno di g, facendo così aumentare (molto lentamente nel tempo) il loro rapporto. 
La seconda è che, all'interno di tale modello, la crescita economica può diminuire solo se diminuisce la produttività marginale del capitale. E' il dimezzamento di quest'ultima, per esempio, a causare il dimezzamento della prima; significa che un aumento di capitale genera un aumento del PIL dimezzato rispetto alla situazione precedente [4]. Di conseguenza, anche il tasso di rendimento netto del capitale (r) viene dimezzato [5]. Anzi: se si continuasse ad accumulare capitale, aumenterebbe la spesa per il deprezzamento e quindi la quantità r risulterebbe più che dimezzata. 

Questo ci porta al punto n° 2. Piketty prevede che un aumento del rapporto capitale/PIL comporti un incremento nella quota netta di reddito da capitale (α) ma, affinché ciò sia vero, deve ipotizzare che r rimanga costante o, perlomeno, che diminuisca meno di quanto cresca β. Invece abbiamo visto che, nel "suo" modello, ogni aumento del rapporto capitale/PIL viene (più che) compensato da una riduzione del tasso di rendimento netto: se β raddoppia, r (come minimo) si dimezza. La teoria pikettyana basata sulle "leggi fondamentali" è invalidata da questa grave contraddizione. Non ha senso - né matematico né economico - impiegare formule e modelli che si basano su determinate ipotesi, e contemporaneamente negare la validità di quest'ultime. 




Ma non è finita qui. Mettiamo da parte le formule usate da Piketty e, per amor di discussione, assumiamo che i capitalisti accumulino così tanto capitale da aumentarne il rapporto col PIL. Per poter dire qualcosa sull'andamento della quota netta di reddito da capitale, bisogna prima capire cosa accade al tasso di rendimento netto. E, per fare ciò, dobbiamo considerare la legge dei rendimenti decrescenti: a parità di tutto il resto, la produttività marginale di un fattore produttivo diminuisce all'aumentare del suo impiego [6]. Quindi, a parità di tutti gli altri fattori, aumentare la quantità di capitale ne riduce la produttività marginale. Inoltre - come detto nei paragrafi precedenti - il tasso di rendimento del capitale dipende dalla produttività del capitale, quindi anch'esso diminuisce all'aumentare della quantità di capitale. 

Consideriamo dunque cosa succede, ceteris paribus, quando aumenta la quantità di capitale. Da un lato, aumenta la produzione di beni/servizi. Dall'altro, diminuisce il rendimento del capitale - soprattutto al netto degli ammortamenti, poiché bisogna mantenere una quantità maggiore di capitale rispetto a prima. La terza legge di Piketty, a un certo punto, non sarà più valida: g diverrà maggiore di r. Quanto più capitale verrà accumulato, tanto più g crescerà rispetto a r.
L'unica alternativa è che venga superata l'ipotesi di base, ovvero quel "a parità di tutto il resto". La scoperta di nuove tecnologie, per esempio, consente di aumentare la produttività del capitale ed il suo tasso di rendimento netto. La quantità di capitale, in tale scenario, può essere incrementata senza che r diminuisca. A questo proposito, è bene ricordare che una maggiore produttività comporta una maggiore produzione (cioè maggiori PIL e crescita economica). 

Abbiamo così trovato una seconda contraddizione nella teoria di Piketty. Da una parte, prevede che la quantità di capitale aumenti e che il suo tasso di rendimento netto rimanga elevato - quindi, implicitamente, ipotizza che aumenti anche la produttività del capitale. D'altra parte, sostiene che la crescita del PIL resti bassa e vada a diminuire - quindi deve ipotizzare che la produttività del capitale non aumenti, anzi diminuisca. Le due cose, ovviamente, si escludono a vicenda. 


Weierstrass 

[1] Qui ci sarebbe da aprire una parentesi sul fatto che, in realtà, il capitale non è una grandezza omogenea. Ci sono tantissime tipologie e varietà di mezzi di produzione, ciascuna con una diversa produttività. Non è indifferente aumentare il capitale facendo investimenti in un settore anziché nell'altro. 

[2] Il modello assume che, dato un certo livello tecnologico, i mezzi di produzione abbiamo una certa produttività. Perciò la validità di tale ragionamento è limitata a brevissimi periodi di tempo, entro cui non avvengano innovazioni tecnologiche o (più in generale) incrementi di produttività. 

[3] In sostanza, significa che il rapporto capitale/PIL iniziale non sarà necessariamente uguale a quello finale. Infatti Piketty vuole dimostrare che, a seguito di una diminuzione del tasso di crescita economica, il secondo tenda ad essere maggiore del primo.

[4] Si capisce così l'origine dei paradossi matematici notati nella scorsa puntata. Per esempio, se il tasso di crescita fosse pari a zero, vorrebbe dire che anche la produttività marginale del capitale sarebbe nulla. Accumulare altro capitale non aumenterebbe il reddito dei capitalisti, da cui l'ovvia domanda: per quale motivo dovrebbero farlo? Eppure Piketty, ipotizzando che il tasso di risparmio netto non si azzeri, sta dicendo proprio questo: che il capitale continui ad essere accumulato, nonostante il fatto che non produca nulla. Rimanendo invariato il PIL, tale accumulazione aumenterebbe β sempre di più, anno dopo anno, senza limiti. Verso l'infinito. 

[5] Il rendimento del capitale deriva dal valore (beni e servizi venduti) prodotto dal capitale stesso. Se dimezza il secondo, ceteris paribus dimezza anche il primo. Perciò il tasso di rendimento del capitale è legato alla sua produttività. 

[6] Facciamo un esempio. Il proprietario di una fabbrica acquista una unità di un certo tipo di macchinario. L'affida al suo dipendente più capace, quindi ogni giorno viene prodotto un certo numero di beni. Poi viene acquistata una seconda unità, la quale viene affidata al secondo dipendente più capace; quindi il numero di beni prodotti ogni giorno dal secondo macchinario è inferiore a quello del primo. Poi viene acquistata una terza unità...etc. La produttività di ogni macchinario aggiuntivo va a diminuire, fino ad azzerarsi qualora non siano più disponibili altri dipendenti (oppure qualora lo spazio fisico all'interno della fabbrica venga completamente occupato) rendendo inutilizzabile ogni ulteriore unità acquistata.

Nessun commento:

Posta un commento