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lunedì 17 ottobre 2016

Gli errori di Thomas Piketty (2/5) - tasso di rendimento e risparmio

Seconda puntata dedicata agli errori contenuti nel libro "Il capitale nel XXI secolo" scritto dall'economista francese Thomas Piketty. Qui la prima parte. 




Nella prima parte di questa trattazione abbiamo presentato la teoria di Piketty e fatto una preliminare obiezione di buon senso; oggi iniziamo a esaminarla punto per punto. Ricapitoliamo (con annessa spiegazione) le tesi di Piketty: 
  1. Poiché r (tasso di rendimento netto del capitale) è maggiore di g (tasso di crescita del PIL), β (rapporto tra capitale e PIL) tende ad aumentare. Ovvero: i capitalisti, risparmiando e investendo il rendimento netto del loro capitale, tendono ad aumentare il loro capitale più di quanto cresca la produzione nazionale. 
  2. Poiché β aumenta, aumenta anche α (rapporto tra reddito da capitale e reddito totale). Ovvero: aumentando (rispetto al PIL) la quantità di capitale, aumenta (rispetto al PIL) anche il reddito da capitale. 
  3. Poiché α aumenta, aumentano anche le disuguaglianze. Ovvero: essendo il capitale detenuto da "poche" persone, un maggiore reddito da capitale comporta che quei "pochi" si arricchiscano ancora di più rispetto al resto della popolazione. 
  4. Le disuguaglianze sono un male per l'economia, poiché riducono la mobilità sociale e danneggiano la crescita economica. Ovvero: se il divario tra "ricchi" e "poveri" [1] è elevato, gli attuali "ricchi" rimarranno più ricchi degli attuali "poveri". 
Fortunatamente, tali ragionamenti si basano su una pessima applicazione delle leggi economiche. Partiamo dal punto n° 1. Il capitale (cioè i mezzi di produzione) generano un reddito per i capitalisti; parte di questo reddito viene impiegato per mantenere il capitale esistente, e va sotto il nome di deprezzamento. Quindi i capitalisti percepiscono un reddito pari al rendimento del capitale al netto del deprezzamento. Piketty assume che tale reddito venga interamente destinato ad acquistare (e quindi a formare) altro capitale, ma questo - in generale - non è vero. Come minimo, bisogna sottrarre dal computo quella parte di reddito che va a soddisfare i consumi dei capitalisti. Inoltre, per quanto riguarda la restante parte (il risparmio), bisogna vedere quanta venga effettivamente destinata all'acquisto diretto di capitale (azioni, case da affittare, etc). Se i risparmi dei capitalisti venissero semplicemente depositati in banca, per esempio, finanzierebbero consumi o investimenti di altre persone [2]. Dunque la narrativa di Piketty resta in piedi solo se la frazione di r destinata ad aumentare direttamente il capitale detenuto dai capitalisti è maggiore di g. Si tratta di una condizione (molto) più stringente rispetto alla terza legge [3]. 
A titolo di esempio, si consideri che il tasso di risparmio dell'1% più ricco degli Americani negli ultimi 70 anni è variato tra il 20% ed il 40% del proprio reddito (si veda il grafico qui sotto, tratto da uno studio di Emmanuel Saez e Gabriel Zucman pubblicato nel 2014). Teniamo a mente che essere "ricco" non implica essere un capitalista [4], ma comunque tali cifre danno un'idea di quale possa essere il massimo tasso di risparmio di chi detiene capitale. E, come notato sopra, bisognerebbe vedere quanta parte di tale risparmio venga impiegata per l'acquisto diretto di capitale. 


In sostanza, la relazione > g non implica necessariamente che il rapporto capitale/PIL aumenti - o, perlomeno, non nel modo descritto da Piketty. In realtà, l'andamento di β dipende da vari fattori, tra cui il tasso di risparmio netto [5] della società intera: non solo dei capitalisti, e non solo in relazione al reddito da capitale [6]. Alla luce di tutto ciò, il meccanismo pikettyano risulta assai inverosimile. Si basa su un'ipotesi restrittiva e, oltretutto, non prende in considerazione la possibilità che gli attuali non-capitalisti diventino futuri capitalisti, o che gli attuali capitalisti perdano capitale (in valore assoluto e/o relativamente al resto della società). 

Che dire, allora, della seconda legge citata da Piketty? Riscriviamola: nel lungo periodo, per valori fissati del tasso di risparmio netto (s) e del tasso di crescita economica (g), vale l'equazione β = s / g . Per definizione, g dipende dal tasso di crescita della popolazione e dal tasso di crescita del reddito pro-capite. Piketty sostiene che quest'ultimi stiano diminuendo e che (probabilmente) continueranno a farlo, causando lunghi periodi di bassa crescita. Perciò, a parità di s, si avrà un β crescente: con un tasso di crescita dimezzato, per esempio, il rapporto capitale/PIL tenderà a raddoppiare.

Tasso di risparmio netto e tasso di crescita del PIL reale (dati USA, 1960-2016).
Sopra: valori percentuali su PIL. Sotto: variazioni (in % del PIL) rispetto all'anno precedente. 

Di per sé (e considerato quanto scritto nel paragrafo precedente) questa legge non dice nulla sulle disuguaglianze. Vale comunque la pena di trattare in dettaglio la matematica del problema, cosa che faremo nella prossima puntata. Notiamo subito, però, delle stranezze. Se il tasso di crescita scendesse fino a zero, il rapporto capitale/PIL diverrebbe infinito; inoltre, in caso di crescita negativa, anche β diverrebbe negativo! Tutto ciò, ovviamente, non ha alcun senso. 

L'errore di Piketty consiste nell'assumere che s sia costante e positivo, cioè che il tasso di risparmio nazionale (al lordo del deprezzamento) cresca sempre di più [7], anche in periodi di crescita bassa o nulla. Infatti, nel caso g = 0, il capitale potrebbe aumentare solo dedicando alla sua formazione quote sempre maggiori (fino al 100% [8]) della produzione nazionale. 
Invece, sia dal punto di vista matematico che da quello economico, ha più senso ipotizzare che il tasso di risparmio netto diminuisca assieme alla crescita, anziché rimanere costante. Al limite, durante tempi prolungati di crescita nulla, ci si aspetta che il risparmio venga impiegato solo per mantenere il capitale esistente - e non per formarne altro - cioè = 0. In effetti, come si vede nei due grafici qui sopra, il risparmio netto "segue" i mutamenti nel tasso di crescita. In base a queste considerazioni, l'aumento di β sarebbe molto più contenuto (per non dire nullo) di quanto ipotizzato da Piketty. 

In sostanza: non solo la seconda legge non ha nulla a che fare con la crescita delle disuguaglianze, ma sembra dare problemi proprio quando la crescita è bassa - cioè nelle condizioni necessarie alla narrativa di Piketty. 


Weierstrass 

[1] I termini ricco e povero vanno letti in senso relativo. I poveri di oggi hanno una qualità della vita generalmente superiore rispetto ai ricchi del passato. I poveri dei paesi ricchi, secondo gli standard dei paesi del Terzo Mondo, sono in realtà ricchi. Quindi le virgolette sono d'obbligo, quando si usano questi termini. Sarebbe più corretto parlare di "più ricchi" e di "meno ricchi". 

[2] Le "altre persone", i non-capitalisti, possono acquistare capitale (fare investimenti) o impiegando i propri risparmi, o prendendo a prestito quelli altrui. Così diventano, a loro volta, capitalisti. Tale processo, nel contesto narrativo pikettyano, riduce la crescita delle disuguaglianze: al limite, se tutti diventassero capitalisti, esse smetterebbero proprio di crescere. 
Per inciso, abbiamo un'ulteriore conferma di quanto sia controproducente - nell'ottica pikettyana - confondere le definizioni di capitale e ricchezza. Tutti, in misura maggiore o minore, possiedono della ricchezza; quindi tutti sarebbero capitalisti, se si accettasse la definizione di Piketty. Ma, se tutti fossero capitalisti, allora tutti riceverebbero un tasso di rendimento netto, etc. 

[3] Per esempio, considerando i valori medi previsti da Piketty per r (circa 4%) e g (circa 3%) durante il periodo 2012-2050, tale condizione sarebbe probabilmente disattesa. Bisognerebbe infatti che più del 75% del reddito netto da capitale venisse impiegato per acquistare direttamente altro capitale. 

[4] Si può essere ricco senza possedere alcun tipo di capitale, e viceversa. Un agricoltore, possedendo il terreno su cui coltiva e vari attrezzi agricoli, è un capitalista; difficilmente, però, sarà nell'1% o nel 10% più ricco della popolazione. 

[5] Cioè al netto del risparmio destinato a compensare le perdite di capitale o a finanziare il debito al consumo

[6] Nulla vieta di risparmiare una parte del reddito da lavoro ed impiegarla per acquistare capitale. 

[7] Se la quantità di capitale aumenta, aumenta anche la spesa legata al deprezzamento. Quindi, se il risparmio netto rimane costante, il risparmio lordo (somma di risparmio netto e deprezzamento) aumenta.


[8] Risparmiare il 100% della produzione nazionale al fine di investirlo nella formazione di nuovo capitale significherebbe azzerare i consumi. E' praticamente impossibile che si verifichi tale situazione. 

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